La pupazzella

La cosa era andata così: una sera il Gildo era tornato a casa dopo la riunione alla sezione del Partito Comunista e ci aveva riuniti tutti attorno al tavolo della cucina: me, sua mamma Elide, suo papà Adelmo, la zia Mafalda e anche la Rosa, la nostra figliola di appena 6 anni.
«Oggi i compagni hanno invitato in sezione le compagne dell’UDI – aveva esordito il Gildo, che quando parlava del PCI prendeva sempre un’aria riverente e orgogliosa allo stesso tempo – e ci hanno chiesto, a tutti noi della sezione e della Cooperativa, se ce la sentiamo di aderire alla campagna di solidarietà per i bambini del sud e di accogliere in casa un cinno o una cinna
Sapevamo di che cosa stava parlando: da qualche mese, nelle nostre campagne, stavano arrivando piccoli da ogni parte d’Italia. Prima da Napoli, poi da altre località del sud ma anche dalle grandi città del nord come Milano e Torino. La guerra era finita da più di un anno e la vita era ancora dura per tutti.
L’Italia era un cumulo di macerie, le strade distrutte, la rete ferroviaria un colabrodo e fra le classi più disagiate serpeggiava una miseria nera che si mangiava l’anima e il corpo delle persone.
E così il Partito aveva pensato di aiutare i più fragili e di mandare i bambini in affido alle famiglie delle campagne emiliane per qualche mese: per sfamarli, vestirli, mandarli a scuola. Per permettere a queste creature di fare i bambini invece di costringerli a responsabilità più grandi di loro.
I racconti che venivano dal sud erano tremendi: cinni anche di pochi anni che vagavano da soli per le città distrutte alla ricerca di un po’ di cibo o di acqua potabile, spesso orfani, abbandonati a se stessi o a carico di famiglie che non riuscivano a prendersi cura di loro.
Nessuna delle famiglie del Partito e della Cooperativa era ricca. La guerra aveva colpito duramente anche noi, ma in campagna ce la si cavava meglio che in città.
Dalla terra qualcosa da mangiare usciva sempre e poi dove si mangiava in sei si mangiava anche in sette.
«Ma sono figli di compagni?» aveva chiesto l’Adelmo.
«I cinni son cinni.» aveva sentenziato la Elide.
«Allora votiamo per alzata di mano.» aveva chiuso la discussione il Gildo con aria solenne.
Il “sì” aveva vinto all’unanimità.
Nunziatina era arrivata a casa nostra dopo due settimane: il Gildo era andato a prenderla in stazione a Reggio col carretto e io le avevo preparato le tagliatelle e lo zabaione.
Mia figlia Rosa non stava nella pelle dalla curiosità e correva per il cortile canticchiando “Il treno della felicità sta arrivando! Il treno della felicità sta arrivando!”.
“I treni della felicità”: così il sindaco di Modena, il compagno Alfeo Corassori, aveva ribattezzato quei convogli pieni di piccoli passeri spaventati spediti a centinaia di chilometri da casa per poter sopravvivere.
L’idea di avere una sorta di sorella elettrizzava mia figlia che in quelle due settimane mi aveva subissata di domande: «Ma come sono fatti i bambini di Napoli? Come quelli di Reggio? E che cosa mangiano? E parlano come noi?»
Io cercavo di tranquillizzarla dicendole che sarebbe arrivata una bambina molto simile a lei, ma sulla questione della lingua avevo qualche dubbio.
Una cugina modenese della Ines, la lattaia, aveva accolto due sorelle di 6 e 8 anni di Terni che parlavano solo un dialetto stretto e astruso e i primi tempi la comunicazione era stata difficile.
Mi ero rassicurata dicendomi che il cibo era un linguaggio universale e che Nunziatina avrebbe imparato a mangiare le mie tagliatelle anche senza saperne ripetere il nome.
Rosa fu la prima ad avvistare il carretto e il Gildo trovò tutta la famiglia schierata dinnanzi all’uscio di casa.
«Lei è Nunziatina.» disse tirando giù dal carretto un ragnetto nero e secco secco che subito si riparò dietro alle sue gambe.
«È ben magra!» si lasciò scappare sconsolata la zia Mafalda, che aveva lavorato due giorni disfacendo vecchi abiti per ricavarne un paio di grembiuli per la piccola ospite.
Li aveva tagliati su misura della Rosa, ma mia figlia era tonda come la luna e quell’altra secca come un chiodo.
«Tocca scucire e rifare tutto.» concluse la zia.
Intanto la Rosa si era lanciata alla conquista della nostra ospite: «Ciao, io mi chiamo Rosa come Rosa Luxemburg.»
Mia figlia era molto fiera del suo nome: il nonno le aveva detto almeno un migliaio di volte che la compagna Rosa Luxemburg era stata una donna molto importante e ogni volta lei si presentava ripetendo “ Rosa come Rosa Luxemburg” al punto che mi immaginavo che pensasse che quello fosse il suo nome, completo e per intero.
Nunziatina fece un passo indietro, spaventata, e il Gildo la prese per mano e la condusse in casa.
La piccola si guardava attorno con gli occhi sgranati che raccontavano il dolore della paura.
I compagni di Reggio ci avevano raccontato che al sud i preti, per convincere le famiglie a non affidarci i figlioli, diffondevano la diceria che i bambini venivano mandati in Russia per essere mangiati.
Alcune famiglie ci avevano creduto ma la maggior parte era così disperata da aver ceduto alla speranza di un futuro lontano dalla fame e dalle privazioni.
Molti bambini arrivavano al nord pieni di paura e i racconti si sprecavano.
C’era chi di notte si svegliava piangendo in preda agli incubi implorando che non gli venissero tagliate le mani e chi, davanti al forno acceso per il pane settimanale, era fuggito terrorizzato e si era nascosto in un fosso per mezza giornata temendo che volessero cucinarlo.
A tavola, seduta fra me e la Rosa, Nunziatina appariva persa e intimorita. Pensavo che si sarebbe tuffata sulle tagliatelle e invece le guardava senza toccarle.
Provai ad imboccarla: un boccone, due bocconi. Sembrava che al posto di tagliatelle stesse masticando sabbia.
Anche la Rosa cercava di invogliarla a mangiare, ma Nunziatina non apriva bocca e si fissava le mani. Ogni tanto scrutava fugacemente la stanza, come un animaletto in gabbia che cerca la via di fuga.
Aveva la carnagione olivastra, gli occhi enormi, riccioli fitti e neri: sarebbe stata bella se solo la magrezza eccessiva non le avesse calato addosso un’aria da vecchina malata.
«Ci vuole pazienza.» dissi più che altro a me stessa. Il resto della famiglia annuì.
Al momento di coricarsi portai le cinne al piano di sopra: sul letto della Rosa, abbastanza grande da accogliere entrambe, c’erano due camicie da notte. Nella sua, Nunziatina si perdeva.
«Altro lavoro per zia Mafalda.» dissi fra me e me con un sorriso.
Salutai le cinne con un bacio e spensi la luce, ma come fu buio Nunziatina scoppiò a piangere. Era un pianto disperato e straziante, inframmezzato da una litania di parole misteriose.
Da quando era arrivata, la piccola parlava per la prima volta e io mi accorgevo con sgomento di non capire nulla di quello che cercava di dirci.
Arrivò il resto della famiglia: cercammo di blandirla con una fetta di mela, poi di consolarla con un cucchiaio di miele, poi la Elide propose una tazza di camomilla, il suo rimedio universale e infallibile contro i mali del mondo.
Ma il pianto di Nunziatina era inarrestabile.
Delle parole che uscivano dalla bocca, tre erano quelle che ripeteva più spesso: ‘a pupazzella mia, ‘a pupazzella mia.
«Forse ha mal di pancia – disse il Gildo – è meglio se vado a chiamare il dottore.»
«Sì – risposi – vai a chiamarlo. Non possiamo lasciare che si ammali appena arrivata.»
Mentre io e il Gildo si discuteva, vidi la Rosa scivolare giù dal letto e andare alla cassapanca. La aprì e ne tirò fuori la Tilde, la bambola che zia Mafalda le aveva cucito a Natale: aveva un vestito azzurro e capelli di lana color della ruggine, proprio come i suoi.
Rosa tornò a letto stringendo la bambola, poi la allungò verso Nunziatina.
Il pianto della piccola si attenuò e i suoi occhi si accesero di una luce che le vedevo per la prima volta.
‘a pupazzella.
Nunziatina aprì le braccia fino a quel momento serrate al petto e accolse la bambola che Rosa le affidava.
Il pianto si era calmato. Fra un singhiozzo e un sospiro, ora Nunziatina aveva occhi solo per la Tilde.
«Domani ne cucio una coi capelli neri neri.» annunciò zia Mafalda.
Il resto della famiglia si ritirò, io rimasi fino a quando entrambe le cinne non si addormentarono con la Tilde in mezzo a loro.
I loro respiri lievi erano rassicuranti. Sorrisi. Niente, in quel momento, mi pareva impossibile.

©Viviana Gabrini, 2024
©Foto Pixabay

Il racconto è di fantasia ma basato su fatti realmente accaduti e ampiamente documentati. Le paure dei piccoli qui raccontate sono le stesse testimoniate dai protagonisti oramai adulti in decine e decine di interviste facilmente rintracciabili in rete.
Si calcola che i bambini del centro e del sud accolti in Emilia Romagna, Liguria e Toscana furono oltre 70.000.

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