Le lacrime in tasca

Foto di 506967 da Pixabay

In questi giorni ho le lacrime in tasca, come diceva mia madre. Sono diventato uno di quei vecchietti catarrosi che sovrappongono accessi di tosse e naso che cola, mimetizzando le lacrime nel raffreddore. Mi vengono gli occhi umidi per niente: la scena di un vecchio film, una frase colta per strada, una bambina che piange perché è caduta e si è sbucciata un ginocchio, un tramonto.

È il distacco. La perdita. Ci vuole tempo, lo so. Si chiama elaborazione del lutto, dicono.

Cerco di non pensarci, ma è inutile: me la vedo davanti di continuo. Ogni volta che esco per andare al lavoro e lei non è sulla porta a guardarmi con quegli occhi strappacuore alla vero che torni? Ogni volta che passo davanti alla panchina tra le aiuole spelacchiate dietro casa, sosta obbligata dopo il caffè e croissant – mezzo a me e mezzo a lei, se no mi faceva il broncio – nel baretto all’angolo.

Ogni volta che torno a casa e non è lì ad aspettarmi, quando butto dove capita il giaccone, mi sfilo le scarpe e mi lascio cadere sul divano. Quando allungo il braccio per abitudine, prima di ricordarmi con una fitta al cuore che lei non c’è più.

Mi amava. E si contentava di poco, in fondo: una carezza, le serate sul divano davanti alla TV, qualche parola dolce. Sussurrata appena, perché mi vergognavo. Dopo tanti anni, che coglione.

Sospiro – sospiro parecchio, di questi tempi – mi dico che passerà, ma se voglio essere onesto devo riconoscere che la mia vita è cambiata. Adesso quando attraverso la strada guardo quattro volte, prima di scendere dal marciapiede. E di sera non sono più uscito. Trovo ogni sorta di scuse – perché in fondo lo so, che sono scuse – ma non esco. Mi dico fa freddo, o magari piove – che poi non piove da tre mesi – o del caffè posso fare a meno fino a domattina, o di sigarette ne ho ancora due e comunque meno fumo meglio è. Insomma, sono diventato un esperto di scuse. Anche le più spudorate, per non uscire quando è già buio. È che d’inverno viene buio presto, e solo l’idea di buttarmi in strada, con la luce malata di questi quattro lampioni, mi fa accapponare la pelle. Ma sul serio, eh? Con i brividi sulla schiena e i peli delle braccia tutti dritti. Perché anche solo mettere il naso fuori col buio, mi riporta a quella sera maledetta.

Era già scuro e c’era anche un po’ di nebbia. Poi, naturalmente in periferia al signor sindaco non gliene frega niente di illuminare come si deve, mica ci sono i negozi e i ristoranti di lusso, qui. Quindi lo posso anche capire, che quello in macchina non l’abbia vista. Quello che non capisco e che non riesco ad accettare è che non si sia fermato, dopo. Lei era appena scesa dal marciapiede e stava iniziando ad attraversare, venendo verso di me. Io ero impaziente e nervoso, perché tra poco cominciava quella serie TV che vedevamo insieme sul divano e non mi volevo perdere l’inizio. Così l’ho chiamata, le ho urlato di darsi una mossa, che si faceva tardi. Credo che non me lo perdonerò mai. E lo sapevo benissimo, che con gli anni anche lei, come me, si è fatta più lenta e faticava ad andare svelta. E poi si distraeva facilmente, sempre lì a guardarsi intorno, con quell’aria svagata che quando era giovane mi faceva tenerezza, ma adesso mi faceva solo incazzare. Ero nervoso, pensavo alla serie TV, io, alla maledetta serie TV del cazzo, accidenti a me. Quindi l’ho lasciata un po’ indietro e ho attraversato prima io.

Così ho visto proprio tutto. Lei che scendeva dal marciapiede, la macchina che arrivava veloce da dietro la curva. Non c’è stato neanche un accenno di frenata. Lei stava guardando me, credo che non se ne sia neanche accorta, per fortuna. Se si può chiamare fortuna.

La botta l’ha scagliata prima in aria, poi la macchina le è passata sopra.

Non dimenticherò mai il rumore: una specie di sciac, come quando ti cade un’anguria per terra. Credo che fosse la testa. Ancora adesso, a pensarci mi vengono i brividi.

L’ultima cosa che ho visto è stata quella macchina nera – uno di quei SUV del cazzo – che sbandava e rallentava un po’, ma solo per un attimo, poi schizzava via, lasciando mezzo chilo di pneumatici sull’asfalto.

Dopo, non so bene, non mi ricordo proprio tutto, perché mi sono sentito male, che ho il cuore ballerino, e qualcuno ha chiamato l’ambulanza. Per me, perché per lei non c’era più niente da fare. In ospedale continuavo a chiedere, ma nessuno mi sapeva dire niente. Solo quando hanno visto che mi arrabbiavo sul serio e diventavo tutto rosso, si sono presi paura che mi venisse uno sciopòn e me l’hanno detto. Ma è stata solo una conferma, perché avevo visto e dentro di me lo sapevo, anche se forse un filo di illusione in fondo in fondo ce l’avevo ancora.

Lei dicono che è morta sul colpo. Voglio crederci, spero proprio che sia così, non sopporto l’idea che abbia avuto il tempo di capire. Mi fa sentire in colpa, per come l’ho trattata proprio in ultimo, un secondo prima che succedesse, io e la mia serie TV del cazzo. Tra l’altro, non l’ho più guardata, non so neanche come va a finire, chissenefrega.

Tutti mi dicono che non è stata colpa mia, che devo farmi forza, andare avanti e magare iniziare a guardarmi intorno. Dico la verità: per un momento ci ho anche pensato, ma mi sembrerebbe di tradirla. Lo so, che forse hanno ragione, che questa è la vita e le cose brutte succedono, che forse è stupido, ma non ce la faccio.

Io un’altra cagnolina non la voglio più.

©Euro Carello 2024

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