Digressioni sul punto-vita

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Sono una matrona ciociara e nella biologia del mio corpo non esiste la possibilità di un punto-vita, esso non è proprio contemplato nel disegno di Dio, non può crescere sul terreno argilloso del mio
corpo: se provassi a costruirlo, semplicemente franerebbe sulle mie cosce indolenti.
Per definizione, come le nonne, io so cucinare ogni tipo di pietanza definita “povera” e in quanto tale deve supplire alla totale mancanza di stile e abbondanza di elementi costituitivi con l’eccedenza delle
porzioni. Esse devono affrontare di petto il commensale, lo devono sfidare con la prepotenza di grassi e calorie, col potere di ungere una camicia sparando l’artiglieria del condimento a distanze siderali, lo
devono spaventare.
Le mie ricette esigono rispetto e non permetto che siano paragonate a quel ciarpane cicisbeo che invade la tv in quei programmi dove la gente si sfida cinguettando ai fornelli, a colpi di erbette sussiegose e
pizzichi di tronfie spezie senz’anima. Le mie preparazioni un’anima ce l’hanno e solitamente si srotola sinuosa nel piatto quando affrontate la prima forchettata, ancheggia fuori dall’ospite e vi sfida
ammiccando come una groupie in ginocchio dinnanzi al suo fattissimo idolo musicale.
E voi che vi fate irretire da aggraziate Signorine Buonasera che vi incantano con un movimento lesto della mano, le braccia che volano sul cibo formando curve impossibili, arti molli come il braccino dell’esangue principessa da salvare con un bacio, coreografie sconce orchestrate per spolverare un po’ di parmigiano
come fosse forfora d’oro, siete le prostitute del palato che poi vengono da me a togliersi le voglie.

Vi lamentante dei prezzi scriteriati dei locali di proprietà di quei giocolieri del peperoncino, gli stessi che avete premiato a suon di auditel e televoto, che vi commuovono spiegandovi la vita con la
metafora di un accostamento culinario biblicamente stabilito e impresso sulle tavole del ricettario, siete terrorizzati all’idea di esprimere pareri contrastanti per paura di esser tramutati in sale grosso. Poi, come Pasquino, vi fate promotori di inesistenti controriforme e pubblicate scontrini sui vostri social e la stampa e la televisione e le folle nei bar inneggiano all’indignazione.
Esproprio culinario!
Potere alcolico!
Vi vedo che organizzate sommosse d’ufficio e allora, dopo lunghe discussioni e mozioni e proposte espresse sotto i fumi dell’ira, tutti in trattoria! All’ora di pranzo saltate in groppa alle vostre bici senza
sellino e vi dirigete verso quella tavernetta oscura dove vi illudete che si mangi come parlate: troppo e senza vergogna. E invece non avete fatto attenzione all’entrata, che è angusta e sembra l’antro
della spelonca di Sibilla, ma che cela sotto un sottile strato incantato una mappa di trentasette carte di credito con la quale potrete saldare il conto monumentale che vi verrà palesato a fine pasto.
La sala ingombra di polverosi belletti avrà un aspetto trascurato per evocare l’immagine di quattro energumeni che tracannano il vino dell’oste mentre giocano la briscola della vita, imbrogliano, si
accoltellano per una carta fra le dita dei piedi, ma c’è un cartello rivelatore al quale non presterete la dovuta attenzione, quello che dichiarerà solennemente che per colpa di qualcuno, non si fa credito a
nessuno. Oibò, e io che c’entro con cotal malandrino? Ho sempre onorato i miei debiti io, sono un consumatore responsabile, quando vado a pranzo coi colleghi ordino solo acqua ma pago sempre la
mia parte anche se quegli stronzi consumano litri di vino e limoncello, maledetti! E invece devo pagare, tutto e subito, per colpa di quello là.

La volta successiva vi organizzate per provare un bar sulla strada che fa anche primi piatti, dicono sia piuttosto economico. Salite nuovamente sulla vostra bici senza sellino, ormai non ci fate neanche più caso e vi recate nell’oasi del risparmio culinario, con un piccolo spaccio di sigarette di contrabbando ben visibile dietro la macchina del caffè e cinque tavolate imboscate nella sala adiacente al covo delle macchinette mangiasoldi. Ognuno occuperà una sedia diversa, nel senso che la possibilità che troviate due sedie uguali equivale a quella che qualcuno vinca nell’oscura sala del biscazziere
dalla quale proviene la nenia continua dei campanellini meccanici e delle monete ingurgitate dalle ingorde macchinette.
Il conto sarà effettivamente modesto e voi ne sarete lieti, finché non scoprirete che in realtà è solo l’acconto per l’operazione di trapianto di stomaco o terapie sostitutive che affronterete tra qualche mese, a causa delle caratteristiche delle materie prime usate per preparare quei pasti. È un’organizzazione perfetta, se ci fate caso gli specialisti gastroenterologi e le cliniche private lasciano proprio dei dépliant sui banconi di questi bar, con tutte le offerte e i punti premio, uno stomaco sono cinquanta punti, ci aggiungi venti euro e ti porti a casa l’accappatoio del San Raffaele.
La cucina in questi luoghi pittoreschi è normalmente un bugigattolo ricavato in una rientranza dietro al bancone, una oscura crepa all’interno del muro portante, un ambiente dentro il quale Ikea riuscirebbe a piazzare anche un elegante salottino vista piano cottura, ma di regola veste attillato al cuoco. Questo è naturalmente sprovvisto di qualsiasi abilitazione per somministrare cibo al pubblico, si narra che la formula del Novichok nasca da una forma attenuata del condimento de “la gricia della casa”.
L’energumeno è tradizionalmente un cognato della padrona del bar e ottiene il ruolo di cuoco per meriti dinastici: salendo al trono assume nomi tipo “Antò, Gaetà, Genni, Ahò”.
Il di lui umore è tradizionalmente total-black e sulla maglietta estiva indossata tutto l’anno si trovano strati geologici di condimenti che periodicamente vengono fatti oggetto di studio e sperimentazioni
scientifiche. Il cliente finale paga poco perché l’olio di frittura è coltivato come lievito madre, mantenuto in atmosfera protetta, coccolato, e si riproduce per partenogenesi. Un giorno tu non ci sarai più ma quell’olio sarà sempre lo stesso.
Vi vedo tornare a casa lamentandovi dei valori dei vostri trigliceridi, che ormai sono cresciuti, si sono fatti grandi e non vogliono abbandonare il nido. E sì, ho speso poco però mi sento pesante, ho l’alito di un Mangiamorte, mi stringono i pantaloni, devo portarli tre metri sotto il culo come gli idraulici e i tronisti.
E allora è da me che tornate.
Sono quella che non usa il timer quando cuoce la pasta perché ne fa di più per poterla assaggiare ripetutamente, con la stessa forchetta naturalmente, perché la cucina è un atto d’amore e quando mangi i
miei piatti, mangi la mia bocca. Non conoscerai mai la mia ricetta perché desidero che tu capisca che non puoi fare a meno di me. E perché non avevo il burro quindi ho messo un po’ di latte sperando
nella Madonna che venga lo stesso, ho finito la farina e ci ho spolverato il pan grattato, mi è scappato troppo sale e ho dovuto allungare un po’ d’acqua con il dado, ma era di carne in un piatto di
pesce, non perché pensassi che ci stesse bene ma perché non avevo quello giusto e impiccio e imbroglio e sbroglio così come viene, assaggiando e aggiustando, che poi è così che funziona la vita.
Ci ho provato a seguire le ricette, giuro. Mi sono impegnata a seguire quelle che usava mia nonna e poi mia madre, ho provato pure quelle di mia suocera, ma non c’è stato verso che mi riuscissero
bene. Alla fine non mi fidavo che l’addensante addensasse davvero e ne mettevo troppo, con i mattoni ottenuti ci ho costruito un riparo per gli attrezzi. Non mi sembrava che il fuoco lento bastasse e ho
dovuto ridipingere la cucina. Bello quel posacenere, Murano?
Quello? No, era una frittella che mi è venuta un po’ dura e non so come differenziarla, nel dubbio ci spengo le sigarette dentro.
Insomma mi arrangio.
Perché sono una matrona ciociara e per me non è previsto un punto-vita.

©Ale Ortica

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