In sonni

A volte non dormo io, a volte non dormi tu. Non c’è una regola.
Non sai quante volte sono stata sul punto di chiederti di parlare, di stare da soli un po’ di tempo per poterti spiegare cosa succede.
In rari momenti ho le idee chiare, so esattamente cosa dovresti sapere e persino come dirtelo, ma poi manca il coraggio, oppure manca l’energia per affrontare il discorso. Siamo stati bravissimi ad affrontare la perdita di ogni speranza quando si trattava di comprendere che uno di noi aveva un ostacolo
fisico, una malattia se vuoi, una menomazione, del resto una cosa alla quale la scienza può dare un nome diventa accettabile.
Siamo stati una squadra quando abbiamo potuto scegliere tra varie opzioni, pronti, lucidi, dinamici. Poi le opzioni si assottigliano, il tempo passa, questo e quello lo abbiamo provato, io ho fatto la mia parte nella mia metà campo e tu hai fatto la tua. Bravissimi, sublimi insieme.
La depressione, come la chiamano tutti, oppure quella sottile patina di polvere che ingrigisce le sensazioni, quell’impalpabile certezza che sta andando tutto male, a volte è un’ulcera dell’anima e altre volte è solo un sintomo della terapia che passerà. Nel dubbio tu c’eri sempre, con la tua capacità di soffiare sulla sporcizia che offusca le sensazioni, le mani calde sulle mie che sono gelate, i gesti
camerateschi e l’occhiolino per comunicarmi che va tutto bene.
Bravo, sei molto meglio di me.
Io non riesco a dire l’essenziale che, non diciamo baggianate, non è visibile agli occhi di chi sa guardare o ti vuole bene, ma va!
L’essenziale lo devi saper dire, altrimenti ci possiamo amare alla follia come due adolescenti in ansiosa attesa di testare le proprie dotazioni riproduttive, ci possiamo comprendere e persino sopportare come il Padre Eterno che passa le sue giornate a sentire miliardi di petulanti orazioni che alla fine tendono solo a chiedere qualche favoruccio. Ci possiamo riconoscere l’uno nell’altro, ma se le cose non le diciamo diventano come l’odore di muffa della parete nord, che si intrufola in ogni cellula della casa, e anche se raramente arrivi alla consapevolezza di quel fetore, comunque non riesci a identificarlo. Resta lì e basta.
Tu penserai che la tristezza, il lutto nei confronti di una maternità che non si potrà mai realizzare mi stia prendendo a calci e che mi serva solo tempo per rialzarmi. La parola “mai” è una condanna, come la parola “sempre”, ovvio. Non avverrà mai e soffrirò sempre.
E invece no, vedi, è qui che, ne sono sicura, stai sbagliando. Certo, sarei più sicura se ne parlassimo, naturalmente, ma sto appunto spiegando che questo non avverrà perché come abbiamo appena
chiarito, parlartene è una cosa che non riesco a fare. Non sono triste perché ho scoperto che l’idea di concepire un figlio e di partorirlo si sia rivelata irrealizzabile, perché era appunto un’idea, non un bambino. Era l’immagine di esso che diventa un buco nero in grado di attirare irresistibilmente ogni emanazione d’amore e attenzione, perché quando ami un figlio non sai mai che fine farà quel sentimento, come esso lo userà, se lo terrà in considerazione o addirittura lo calpesterà finendo per odiarti, ad
esempio. Più prosaicamente era l’idea di un tavolo da pranzo con tre posti, piedini penzolanti che dondolano mentre facciamo colazione, manine cicciottelle che si protendono verso di te col desiderio di
abbracci caldi, testolina che saltella a due passi da noi mentre andiamo in giro a fare i turisti e esso che mangia il mondo con gli occhi. Era tutto questo, esso, che non sarà, mai.
Non mi interessa che sia oggettivamente colpa mia e delle mie ovaie inabili al proprio compito, anzi, mi dico “brava, hai fatto di tutto, non hai tralasciato nulla, hai fatto un buon lavoro e non ti sei mai
risparmiata”, quindi scordatelo quando mi scruti nell’anima per capire come sto, non mi sento in colpa. Non per questo.

Invece soffro moltissimo e mi sento orrenda quando mi cerchi e non riesco più farmi trovare. Non sono più io e tu ne sei perfettamente cosciente, comunque attendi il mio ritorno mentre di me resta solo un guscio.
Ti avvicini e io interrogo il mio corpo, cerco di capire se è tornato un pezzo di me, se si accende qualche debole spia, un lumicino da una finestra dentro una casa fatiscente. Non trovo niente e tu mi cerchi, non ho intenzione di sottrarti il poco che posso essere.
Succede spesso che mi sorprendi mentre cerco di ricordare qualcosa, un nome insignificante o una canzone, lo faccio per concentrarmi su un pensiero innocuo che non mi crei nervosismo,
allora l’ultima frase o la nota che stavo canticchiando cominciano a ripetersi all’infinito, frammenti senza senso che ripeto ossessivamente come un’eco, falena falena falena falena falena, così per tutto il tempo in cui mi cerchi e la mia testa si irrigidisce. Poi arriva la rabbia e anche il corpo s’irrigidisce. Non voglio essere
cercata, non voglio essere toccata, detesto tutto, vorrei solo tornare a “falena”, vorrei che mi lasciassi essere quella cosa vuota che mi sento. Ma tu vai avanti. Percepisco quanto sia penoso per te non
trovare nessuno in questa testa talmente vuota che una parola diventa eco all’infinito, eppure in quel momento ti detesto perché non mi lasci stare.
Poi ti distendi su un fianco, esasperato dalla tua stessa speranza che muove ogni tentativo, notte dopo notte.
La mia rabbia sbuffa via al primo respiro e torno a sentirmi triste e umiliata, perché un corpo senza testa (o volete chiamarla anima? Per me fa lo stesso), che abominio è? E il male che ti faccio, e la rabbia
che provo, e la bruttezza di quell’abbraccio.
Terminateover le terapie è rimasta solo la fase dell’invecchiamento precoce, signora, è finita, è in menopausa a quarant’anni, ma stia tranquilla, non avrà grossi problemi. A parte i dolori articolari che,
signora faccia yoga, vedrà quanto sollievo, e poi il grasso che addensa sulla pancia e non c’è dieta che tenga, poi i capelli che perdono entusiasmo e sembra vogliano ammazzarsi più di quanto lo
voglia tu. Poi certo, gli sbalzi d’umore, che non sono mai in positivo, non è che da un momento all’altro ti fermi, lasci cadere la forchetta sul piatto e ti rendi conto che sei immotivatamente entusiasta per l’insalata gioiosa che hai la fortuna di poter consumare, no, succede solo che un bel momento pensi che tutto il
vissuto tuo e di un paio di avi, già che sei, sia solo un bolo di merda e che non ne hai fatta una buona. A me succede spesso mentre mi guardo allo specchio e non vedo più quell’immagine della quale ero,
lo confesso, perdutamente innamorata. Il peso inesorabilmente aumentato, i lineamenti leggermente diversi, pelle non più tonica, la lotta costante e snervante contro il cibo, mani e caviglie gonfie e
non c’è modo o farmaco che possano sgonfiarle, non calza più niente, non c’è abito che stia bene, ormai bella ragazza sei la benvenuta nel meraviglioso mondo delle signore Oversize, con quelle splendide bluse per fiancotti pienotti, orsù, è normale a sessant’anni, come dice? Ne ha quarantuno? Che cosa curiosa.
Posso essere un po’ incazzata? Chiedo.
E comunque qualche volta ti ho rassicurato, vedrai, passati gli effetti delle varie terapie tornerà tutto come prima, ma in realtà questo non lo posso sapere. La ginecologa ha raccolto le mie preoccupazioni e
mi ha detto “signora, non è che le donne in menopausa non facciano sesso, sa?”, e io ho ripreso a respirare per due secondi, finché non ha aggiunto che mi avrebbe prescritto un farmaco “locale” che mi avrebbe aiutata a non sentire dolore. Ah ecco, le donne in menopausa fanno sesso come quelle fertili partoriscono: con dolore. Che prospettiva entusiasmante.
Quindi, vuoi sapere se ho paura? Sì. Sono terrorizzata dall’idea di essere un’altra persona (che non mi piace) letteralmente da un giorno all’altro, di non riconoscere più nulla di me. Ogni volta che
mi tocchi provo a cercare quella finestra illuminata, ci provo, ma poi mi spavento e chiudo gli occhi, non voglio sapere se quel lumicino c’è, perché se non dovessi vederlo mai più, cosa sarò?
E così non dormo e così non dormi. Più.

©Ale Ortica

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