Grazie lo stesso

Il ronzio dei macchinari medici arriva attutito dal corridoio: è un rumore simile a un respiro affaticato ma costante e cadenzato. Il polmone che tiene in vita l’ospedale intero, gli viene da pensare.
Il figlio scuote la testa e scaccia quel pensiero che gli sembra sciocco, gli edifici non hanno polmoni e non hanno respiro. Non hanno vita propria.
Lo sguardo gli cade sulla figura rattrappita del padre, assopito dalle medicine che gli calmano i dolori. Quando è diventato così vecchio? Così fragile?
Indifeso no. La cattiveria non gli viene mai a mancare e anzi sembra che offendere chi gli sta attorno, soprattutto lui, lo aiuti a tenersi in vita.
Cattiveria salvifica.
Il figlio si agita sulla sedia poco confortevole, ha voglia di un caffè, ma non ne ha di alzarsi, camminare fino alla macchinetta, rispondere al saluto di degenti e infermieri che oramai lo conoscono.
Parlare gli costa fatica da sempre. Mai stato bravo con le parole. Ascoltare è la cosa che gli viene meglio. Ascoltare e ricordare.
Sono le tre del pomeriggio, l’ora che preferisce. La frenesia mattutina è scemata, l’ora dei pasti è distante e all’assalto serale delle visite parenti mancano ancora due ore.
Il figlio si gode quei momenti di relativa calma: se la sedia non fosse così scomoda potrebbe anche schiacciare un sonnellino, ma una fitta a metà schiena non gli dà pace.
In ufficio ha chiesto una settimana di ferie per poter stare accanto al padre. Forse avrebbe potuto usufruire di permessi per motivi di famiglia, ma non gli va di far sapere qualcosa di sé. Raccontare, spiegare, giustificare, rispondere a eventuali domande gli peserebbe troppo.
La voce affaticata del padre lo distrae dai suoi pensieri.
Gli chiede acqua. Il figlio lo serve e l’acqua è sempre troppa o troppo poca, troppo fredda o troppo calda.
Il padre snocciola il rosario delle richieste: abbassa la tapparella, socchiudi la porta, girami il cuscino, aiutami a sollevarmi, leggimi il giornale.
Ordini secchi, mai soddisfatti come si deve.
L’infermiera arriva per il controllo della pressione: è giovane, gentile, e ha ancora voglia di sorridere. Mentre gli stringe la fascia attorno al braccio, gli dice che è fortunato ad avere un figlio che lo viene a trovare tutti i giorni.
Il padre aspetta che l’infermiera tolga il bracciale e poi le vomita addosso l’orgoglio per gli altri due figli. Quando parla di loro si illumina, gli brillano gli occhi, sembra ritrovare le forze.
L’infermiera li guarda perplessa, il figlio abbozza un sorriso e fa spallucce: è abituato.
Da ragazzo era arrivato a pensare di non essere il figlio di quello che secondo l’anagrafe è suo padre, ma il dna non mente e i suoi lineamenti trovano perfetta corrispondenza in quelli del padre.
Essere un figlio illegittimo, frutto di un relazione clandestina della madre, avrebbe forse dato un senso a quel muro di ostilità che il padre erge quotidianamente fra di loro, ma gli era stata negata anche la soddisfazione di capire i motivi di quel disamore.
In alcuni momenti gli sembra di provare in prima persona la delusione del padre nei suoi confronti: è un dolore che lo stringe alla bocca dello stomaco e si irradia lungo le braccia e le gambe.
Allora, col fiato mozzo e la gola serrata, cerca di rincuorarsi al pensiero che il padre sia riuscito a compensare le sue manchevolezze grazie alle soddisfazioni che gli danno i fratelli. E il dolore, lentamente, passa, i nodi si sciolgono e l’ansia smette di mordergli l’anima.
Il rumore di passi nel corridoio aumenta, sta iniziando l’orario di visite di parenti e amici.
Il padre gli chiede il telecomando e accende la TV.
Il figlio fissa lo sguardo sullo schermo per qualche minuto, ma poi riprende a scrutare il viso del vecchio: non lo ama, ma nemmeno è mai riuscito a odiarlo.
Ogni tanto si chiede se soffrirà alla morte del padre, ma non sa darsi una risposta onesta e che allo stesso tempo non lo faccia sentire in colpa.
Mentre una giornalista dalla voce molesta dà notizie inutili, un pensiero gli attraversa la testa: a mancargli non sarebbe stato suo padre, ma quello che suo padre avrebbe potuto essere.
Il pensiero, del tutto inaspettatamente, gli dà sollievo.
È come sistemare le ultime tessere di un puzzle difficile e faticoso, facendo combaciare spigoli e curvature alla perfezione.
Il figlio scruta l’orologio: è ora di tornare a casa.
Saluta il padre con la mano, guadagna la porta e si gira nuovamente verso il padre: «Grazie lo stesso, papà.»

©Viviana Gabrini, 2024
Foto Pixabay

Condividi: