Corteggiamenti [31] di Alessandro Morbidelli

illustrazione di Niv Bavarsky
illustrazione di Niv Bavarsky

FULL STOP

«Allora è tutto fissato per mercoledì alle nove, nove e un quarto…»
Raccolgo tutti i fogli nella cartellina azzurra. Tendo l’elastico e ho tantissima voglia di girarmelo intorno all’indice. Sono un punto fermo, un punto tondo, e al cuore dei tondi bisogna sempre mirare. Egregio tondino così preciso e presentabile. A lei.
C’è di perfetto a questo mondo. Così perfetto da lasciarsi sentire. Ti sbatte il suo odore in faccia e ti afferra le narici con dita di fine giornata. C’è di perfetto a questo mondo. Ho perso a carte e ora ne sono convinto. Non ricordo quando e quanto. Ma c’è.

Quando avevo venticinque anni ho fatto il maestro di calcio in un campo scuola per bambini delle medie. I ragazzi studiavano inglese e poi giocavano a pallone. Tutto il giorno. C’era una madrelingua dai capelli rossi. «Coffebreak?» Aveva lo sguardo di chi vive di preghiera. La caffettiera che alle prime gocce dense veniva tolta dal fuoco perché poi le versassi in mezza tazzina di zucchero. Sbattevo tutto con il cucchiaino, veniva una crema beige. Versarci sopra il caffè era rito e comunione. I bambini erano lenti, uno piangeva se gli tiravi forte. La caffettiera era da tre, ma bastava solo per due. La madrelingua aveva i talloni neri, sporchi. Come spiccavano sulle lenzuola bianche. Non ricordo il suo nome. Non ricordo la pelle. Ricordo bene i talloni. Neri.

Sento ancora i cani che mi sbranano. Di notte.

Ho avuto il dito di una donna per una notte intera. L’indice. Stretto al mio. «Facciamo pace.» A Venezia nevicava fuoco nero e l’acqua era pece e i bordi tradivano e i tendini erano quelli di un uomo morto. «Per me all’Aperol, per lei al Select» e la schiena. Due mani aperte sulla schiena. I pollici a scendere sulla colonna vertebrale e la stoffa di una maglia a righe. Tutto teso, come all’imbocco di una fonte. Non so niente di giusto, non so niente di esatto. So solo che c’è qualcosa di giusto, che c’è qualcosa di esatto. Non ricordo. Non ricordo una fermata piena che sia stata da ricordare. O l’oliva verde infilzata su uno stecchino che si spinge tra le labbra. Ricordo solo il dito. L’indice.

«Come i crostacei. Hai presente i crostacei?»
Apro le buste dal lato corto. Strappo poco, giusto un buco, poi infilo il dito e scorro per la piegatura. Tutto si apre. Poi tiro fuori la carta. Sempre noi, ancora più dinamici, innovativi e attenti alle tue esigenze. Oppure Alla cortese attenzione del dott. arch. Fisso le date di scadenza su un post-it. Fisso il post-it su una piccola lavagna di plastica. Fisso la piccola lavagna di plastica su una parete. Fisso la parete. Bianca. Per un’ora. Manca il fumo di un rogo, a sbriciolare in grumi di fuliggine questo piccolo mondo asettico. Una volta ti ho vista immersa nella sabbia nera fino alle caviglie, il mare andava e veniva. Non ricordo quanti minuti di ritardo avessi previsto per quella giornata. Ricordo solo le tue caviglie e la luce. Bruciavano nell’acqua con cerchi d’oro. La tua pelle era un fuoco d’oro.

Aspetto ancora i cani che mi sbranano. Di notte.

«Vuoi davvero che ti dica la Verità (in nomine patris…)? Tu sei…»
Voce alta. Quasi un urlo. Imperativi categorici. La forza dell’onda che crede di scavare. Nell’ordine del mio mondo, solo una goccia. E goccia dopo goccia, scivola via. Plop, plop, plop… Davvero, credimi, fidati di me, non scavi proprio un benedettissimo cazzo. Tendi ancora di più i lati della tua bocca. Spalanca le fauci e digrigna i denti. Sfodera gli artigli. Raspa come i cani quando hanno appena cagato. In Africa muore un bambino ogni tre minuti. Ed è nostro pure questo. Mio e tuo. Il mio cuore è un metronomo impostato sui respiri dell’acqua che scende da una montagna e arriva al mare. Non ricordo come ti chiami. Quanto può fregarmene, di quello che vuoi?

«Ma tu, quando succede così, dove vai? Ti si spengono gli occhi… Vorrei sbirciare attraverso la serratura del tuo cervello per capirti. Spaccartela, la testa. Dove vai? Cosa pensi? Cosa?»
Una volta mio padre ha raccolto un pomodoro grandissimo. Cuore di bue, si chiamano pomodori come quello. Tagliato a fettine orizzontali, con un filo d’olio e poco sale. Niente altro. Ne andava orgoglioso. Pochi semi, molta polpa. Non ricordo quanti fossimo a pranzo. Ricordo il rosso del pomodoro e quello della luce dietro le tende della cucina. Ricordiamo sempre la luce che filtra dalle tende. Le proiezioni verso l’uscita di tutte le stanze che abbiamo vissuto. E l’uscita è sempre dove c’è luce, mai una porta buia. Come se per tutta la vita non desiderassimo altro che bruciare.

Accarezzo i cani che mi sbranano. Di notte.

«Questo è quello che io voglio da te. Hai capito?»
Sì, credo di averti capito. Funzioni come molti.
Plop… plop… plop…

© Alessandro Morbidelli, 2016

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