La vedova

Era un grand’uomo, sono orgoglioso di aver lavorato al suo fianco.
Stringendo l’ennesima mano e ascoltando per l’ennesima volta parole che all’incirca si equivalevano, Adele si sentì infinitamente stanca e si chiese quando sarebbe terminata quella giornata così faticosa. Una pioggia talmente inconsistente da sembrare vapore le inumidiva le ciocche di capelli raccolte ad arte sulla sommità del capo: era l’acconciatura preferita di suo marito e benché ogni volta le costasse lavoro e pazienza e forcine, aveva pensato di rendergli omaggio per l’ultima volta.
Occhiali scuri e tailleur nero oramai lucido di pioggia, la donna stava ferma accanto alla bara del marito, aspettando che il mondo le sfilasse davanti per presentarle le condoglianze di rito.
Muta, le labbra serrate in una smorfia che forse era dolore, stringeva mani e reclinava la testa, ascoltando parole che si ripetevano come in un disco rotto.
Era un uomo straordinario, una persona unica, di grande valore, energia pura, insostituibile, una gravissima perdita, un vuoto incolmabile.
Per un attimo pensò che ognuno di loro avesse ricevuto un copione da mandare a memoria e lo stesse recitando a suo esclusivo beneficio; poi rifletté che era solo il rito della morte, che si consumava uguale a se stesso da centinaia di anni, all’incirca con gli stessi formulari.
Con la schiena a pezzi per le troppe ore passate in piedi, cercò di spostare leggermente indietro il peso del corpo e nel farlo si ritrovò con il fianco contro la bar che conteneva il corpo del marito. Fra poche ore, pensò, sarà tutto finito, rimarrà solo un mucchio di cenere inerte.
Ancora così giovane, sempre così vitale, un vulcano di iniziative.
La girandola dei commenti non cessava.
Incredibile quante persone ti gravitano attorno, si disse lei con una punta di cinismo, quando sei ricco e potente.
Un vero uomo, un amico sincero, un pilastro dell’azienda.
Amico? Suo marito non aveva amici. Aveva conoscenti, colleghi, sottoposti, ma non veri e propri amici. Aveva sì una corte di adoratori, uomini e donne, pronti ad elogiare ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni sua iniziativa.
E quelli erano amici?
Sei spietata con me, la rimproverava sempre lui.
No, replicava lei, serena, sono solo molto sincera.
Il cielo, in quella umida giornata di ottobre, era grigio e lucente come una lama di acciaio e si rifletteva sulla superficie del mare, increspata come un merletto.
Un uomo sempre alla ricerca di avventura, infaticabile, coraggioso.
Alle parole ascoltate con le orecchie, Adele sovrapponeva quelle che riusciva a sentire da dentro.
Le più implacabili, ovviamente, erano le altre donne.
Si chiedevano come avesse fatto lui, che era così bello e affermato e corteggiato da donne stupende, sposare una come lei. Lei che non era bella, non era giovane, non era slanciata, non era elegante.
Di preciso, nemmeno si sapeva con precisione che cosa facesse prima di sposarlo.
Di sicuro, si è sistemata sposandolo. Ma forse no. Forse era una ricca ereditiera che non doveva lavorare per vivere e lui l’aveva sposata per interesse, per accrescere i suoi già consistenti averi.
Iene, pensò lei trattenendo un sorriso malevolo, piccole iene domestiche, pronte a spolpare lei e la sua vita e i suoi ricordi senza sapere nulla, solo facendo troppe supposizioni.
Davvero lui era morto? si chiese incredula.
Una volta, ci avevano pure scherzato. Lamentandosi per una cosa che lei aveva detto (ma ora, accidenti, non ricordava che cosa) lui le aveva scritto: così mi fai morire.
Ma come, aveva replicato lei, ma non mi hai detto di essere immortale?
Ah già, aveva risposto lui, mi ero scordato.
E invece no, gli stava dicendo ora lei con il pensiero, non eri immortale, nemmeno tu.
Ma credi che lei ora erediti tutto?
Le iene erano implacabili.
Ma no, lui aveva due figlie, dovrà dividere l’eredità.
Sempre che lui non le abbia intestato le case prima di morire.
Le case?
Ma sì, oltre alla villa del mare c’è anche lo chalet in montagna.
Hai capito, la vedovella.
E poi ci saranno i soldi.
Molti soldi?
Tanti soldi.
Il frastuono dei pensieri altrui le fece venire un capogiro. Qualcuno la vide impallidire e le offrì una sedia, che lei rifiutò.
Le iene andavano affrontate in piedi: da seduta avrebbe dato loro troppo vantaggio.
Era come un fratello per me, mi mancherà moltissimo.
Adele alzò lo sguardo e incrociò gli occhi del Presidente e si accorse che era sincero ed era forse uno dei pochi. Adele gli sorrise e trattenne la sua mano fra le sue qualche secondo in più.
Sono stanca, voglio andare a casa.
C’è ancora un gruppo di persone che vorrebbero salutarla, rispose l’assistente di suo marito, che per tutto il giorno le era rimasto accanto sbrigando incombenze e guidandola attraverso gli obblighi rituali della morte.
Non mi importa, insistette lei, voglio andarmene.
E senza aggiungere altro voltò le spalle al parterre di iene fameliche che si stavano cibando oscenamente della sua vita e si allontanò con passo fermo.
Testa alta e incedere sicuro, Adele, si disse.
Il suo solito passo lento ma deciso. Un passo che diceva: mondo scansati, perché io devo passare.
I suoi amici, quelli veri, quelli di una vita, la seguirono.
Torno in villa, disse lei con semplicità, raccolgo un po’ di carte e poi mi faccio riportare a casa.
Dovette insistere per convincerli che non aveva bisogno di loro, non ancora, che preferiva rimanere da sola, che davvero non era il caso che si fermassero con lei.
Sto bene, davvero, si affrettò a tranquillizzarli. Ho solo bisogno di stare sola un paio di giorni.
Ma ritornare da sola in quella casa…la sua casa…
Torno da sola nella nostra casa. È quello di cui ora sento davvero la necessità.

Abbracciò ognuno di loro e li ringraziò con lo sguardo, poi si voltò, si accomodò sulla Mercedes messa a disposizione dall’azienda e si fece portare alla villa.
Anche l’assistente si suo marito insistette per rimanere con lei, ma lei fu irremovibile.
Sola. Aveva bisogno di rimanere sola.
Prima di scendere i 50 gradini che portavano alla villa, si sfilò le scarpe che le stringevano i piedi.
Il cemento bagnato rinfrescava e dava sollievo alle sue piante affaticate.
Scese i gradini con calma, mentre sotto di lei il golfo di Spotorno si apriva, grigio e umido di pioggia.
Arrivò in villa e come prima cosa aprì tutte le finestre. Poi sedette in cucina e si preparò un caffè.
Infine salì la scalinata di marmo, entrò nella camera da letto e si tolse il tailleur per indossare una vecchia tuta, comoda e sformata.
Pensò che quella casa rifletteva in tutto e per tutto il gusto e la personalità di suo marito.
E in fondo era giusto così: quando l’aveva comprata e poi adattata ai suoi capricci, lei ancora non era entrata nella sua vita.
Aprì la cabina armadio e affondò il viso in una giacca blu: aspirò a fondo ma niente.
Suo marito non aveva odore. Non l’aveva mai avuto. Poteva indossare una maglietta per giorni, poteva correre come un invasato e sudare come un disperato, ma la sua pelle non lasciava odore.
All’inizio quella cosa l’aveva sconcertata, poi ci aveva fatto l’abitudine.
Solo il rumore dei suoi passi scalzi scalfiva quel silenzio intatto e inconsueto.
Fai così tanto chiasso, l’aveva rimproverato scherzosamente lei una volta, che quando non ci sei manchi per due.
Ed era proprio così: la voce alta e stentorea, la parlantina sciolta, il corpo sempre in movimento. Lui non era uomo da passare inosservato e sembrava odiare il silenzio.
Gli abiti di suo marito, lì alla villa, erano pochi. Lei raccolse la giacca, qualche maglia e due camicie e le portò di sotto.
Poi le mise in un cesto di vimini e con quel cesto appoggiato al fianco prese a girare per la casa, raccogliendo oggetti: quegli orribili soprammobili etnici che aveva comperato durante i suoi viaggi in Africa, le foto che lo ritraevano in moto o a pesca, gli oggetti di pessimo gusto, regalo delle sue innumerevoli amanti.
Staccò dal muro il diploma, la laurea e il prezioso attestato che certificava i suoi successi all’Insea, la prestigiosa scuola che sfornava gli squali della classe dirigente: sfilò le pergamene dalle cornici e le mise nel cesto, insieme alle foto, agli abiti e ai soprammobili.
Uscì in giardino e si avvicinò ai bordi della piscina, che aveva fatto vuotare alcuni giorni prima. Vi gettò abiti e oggetti e rientrò in casa.
Lavorò alacremente fino a sera, vuotando la casa e riempiendo la piscina di oggetti e ricordi e frammenti di una vita che non c’era più.
Era già buio quando dal garage tirò fuori due taniche di benzina che versò sul cumulo; fra le mani, teneva la pergamena della laurea a pieni voti, orgoglio del marito e dei suoi genitori.
La pergamena prese fuoco in un attimo e lei la gettò sul mucchio di ricordi impregnato di benzina.
Mentre le fiamme compivano la loro opera purificatrice, Adele scese verso la cucina per uscirne con una bottiglia di prosecco e un cavatappi.
Seduta sui gradini, stappò il prosecco e prese a bere direttamente dalla bottiglia.
Le fiamme danzavano allegre e implacabili.
La villa sarebbe stata presto venduta, pensò lei, così come lo chalet. Aveva dato disposizioni al suo avvocato perché monetizzasse tutto velocemente. Era disposta a vendere anche a metà del valore degli immobili. Le sarebbe bastato comunque per vivere più che bene per diversi anni.
Fanculo, dannato figlio di puttana. Possa tu bruciare in eterno e patire quel che in vita hai fatto patire agli altri.
Poi rise ed era una risata cattiva e liberatoria.

©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
© Foto Pixabay

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