LA PRIMA VOLTA
Il viso era pietra.
Le gambe immobili.
Le ruote anche.
La paura, la prima volta. La prima volta che non arrivava mai. E quando arrivò si fermò davanti alla porta. Suonò il campanello. Aveva un mazzo di fiori. Rose rosse. Discutibilmente banali per un primo appuntamento, ma necessarie. Le rose rosse sono da primo appuntamento. Non i gigli.
Era l’uomo venuto lì per lei. La faceva ridere. Sentitisi solo al telefono. Quelle voci da vecchie cornette telefoniche, non c’erano ancora i cellulari. Di cellulari si conoscevano solo le camionette delle guardie carcerarie.
Fuori pioveva. I fiori erano bagnati.
In casa non c’era nessun vaso. Fu utilizzato un porta ombrelli. Gli ombrelli erano rotti, uno con le stecche piegate, uno con la tela strappata.
Non si usciva mai quando pioveva. Le strade si facevano scivolose. E le ruote sull’asfalto liscio la facevano sbandare. Era rischioso quando si usciva con la pioggia, seppure fosse stata pioggerella fine. Il risultato non cambiava, si scivolava uguale. I genitori ci tenevano a lei. Si restava, così, tutti in casa quando pioveva. E quel giorno in casa ci doveva stare. Per la pioggia e perché lo attendeva.
Era bello, più bello di quelli del cinema. Aveva i baffi. Era altissimo, per lei.
Le diede i fiori.
I genitori lo fecero entrare nella stanza. Chiusero la porta.
Da dietro sentivano i bisbigli di chi si innamora per la prima volta. Neanche una foto, solo bisbigli. E tutto nato da quell’annuncio:
“Regalasi divano vecchio, basta che lo portiate via. Cosa seria, questo il numero…”
Rispose lei a quella chiamata. Si risentirono poi, e tanti altri poi. Si scordarono del divano.
Dalla stanza ora si udivano risa. Fuori continuava a piovere. La porta era di vetro. I genitori per non fare riflesso nel vetro erano in un angolino buio. Se si fossero fatti vedere, tutto sarebbe saltato per aria, sarebbero esplose le due ruote. Volati libri, penne, colori.
Ma non successe nulla di tutto ciò. I genitori uscirono sotto la pioggia. Non tornarono, se non il giorno dopo. All’indomani smise di piovere. Tornarono su con gli abiti bagnati. Attesero tutta la notte guardando da giù la luce accesa dalla finestra. Poi, quando si spense. Poi, quando spuntò l’alba.
Piovve tutta la santissima notte.
Videro uscire il bell’attore dal portone. Finì di piovere.
Si guardarono commossi. Non fecero finta di piangere, piansero davvero, non era pioggia quella.
Non proferirono parola, fino a quando non le portarono il caffè in stanza. Dalla porta a vetri lei vide l’ombra della madre, la riconobbe. “Entra pure…”, le disse.
“Il caffè, piccola mia.”
“Grazie mami…”
La madre la guardò negli occhi e vide che non pioveva più. Erano azzurri come il primo giorno di vita, quando la prese tra le braccia e le sussurrò il suo nome: “Benarrivata, …”
“Mamma sono…”, “Non dire nulla…, il babbo ci sente.” E ammiccò un occhiolino.
Si racconta l’amore, quello vero lo si può soltanto immaginare, come in questa storia. Quando si toccano le corde di certi eventi il solo pensiero riempie il tempo relativo. Il tempo che passa da un sospiro per il telefono che squilla, se dall’altra parte c’è lui o lei, al sobbalzo del cuore in gola. Il desiderio di un bacio. Il sapore della vita nelle labbra, la solitudine del risveglio. La percezione dei sensi assopiti. Gli arti non possono sentire l’amore che li veste tutti i giorni. Che cucina per te, che ti lava, ti sorride, ti sopporta. Che ti disegna le giornate. Il primo amore è dovuto essere una carrozzina, il secondo è per tutta la vita da quel momento in avanti. E chi lo trova, non se lo lascia scappare. Lo tiene stretto a sé per sempre, finché morte non separi. Finché queste pagine verranno lette e rilette, o vissute da altri.
©Viola E. Miller, 2015