Mi dispiace tanto, non l’ho fatto apposta, davvero. Ero ubriaco, chiaro. Era il mio compleanno, la giornata era quasi finita e non avevo festeggiato un cazzo. Ero lì da solo, a guardarmi intorno senza vedere e a cercare di non pensare. Ma l’occhiata di disprezzo di Linda che usciva sbattendo la porta non riuscivo a togliermela dagli occhi. Mi ero fatto sei o sette cocktail, uno di seguito all’altro, buttati giù senza nemmeno sentire il gusto, nel frastuono assurdo della discoteca, in mezzo a una massa sudaticcia dagli occhi stravolti. Tutti che si agitavano e ridevano con la bocca spalancata, facendo finta di essere allegri. Un casino pazzesco, che per ordinare dovevi urlare, e anche così mica eri sicuro che il barman ti sentiva. E allora, dopo il primo ho continuato a bere Bloody Mary, perché bastava ruotare il dito, indicare il bicchiere e lui capiva. Che poi il pomodoro mi fa pure schifo.
Così, quando il tipo di fianco si è girato di colpo e me l’ha rovesciato addosso, sembravo pieno di sangue. Sono rimasto lì come un coglione, imbambolato, a guardare tutto quel rosso che mi colava sulla camicia di lino e sui jeans. L’avevo appena comprata, quella camicia, era bianca attillata, leggera e un po’ trasparente, che si vedevano i peli sul petto e i capezzoli. Ma adesso si vedeva solo tutto quel rosso. Ed era pure freddo, sulla pelle.
Comunque, se il tipo non si fosse messo a ridere, non sarebbe successo niente. Invece mi ha guardato dall’alto in basso – era più alto di me, ma non tanto – e poi ha cominciato a sghignazzare, dando di gomito alla sua tipa sull’altro sgabello e tirando per la manica un paio di amici, che si sganasciassero anche loro.
Io guardavo lui, che mi indicava col dito e rideva. E gli amici, che sghignazzavano forte. E poi lei, che mi guardava come si guardano gli stupidi, o i matti, il viso un po’ piegato, sorridendo appena, di un sorriso svogliato. È quello, che mi ha fatto più male.
Così sono sceso dallo sgabello in fretta, volevo solo andare via, che ormai la serata era rovinata. Bel compleanno di merda. Poi, però, mentre scendevo ho pensato che non era giusto trattarmi così. Ho pensato adesso mi avvicino a lui e gli dico che ridermi in faccia invece di chiedere scusa non va bene, no, proprio per niente.
Ma dato che ero ubriaco, scendendo dallo sgabello sono scivolato, ho urtato il bancone e ho buttato in terra una bottiglia, che ha sbattuto di brutto e si è rotta.
Ma fino lì non era ancora niente. È successo che mi sono chinato per raccogliere i cocci, ho preso in mano il collo della bottiglia, ma ho perso l’equilibrio. Così per non cadere mi sono aggrappato alla prima cosa che ho trovato, che era lo sgabello del tipo. Lui era già sbilanciato, perché adesso che avevo rotto la bottiglia si agitava e rideva ancora di più, così appena ho toccato lo sgabello lui è caduto a faccia in avanti. E io per non farmelo venire addosso mi sono spostato di colpo, ma avevo ancora il collo della bottiglia in mano. Così gli è arrivato proprio in faccia, anzi sulla gola.
Adesso era la sua, la camicia tutta rossa, solo che non era pomodoro.
Poi la musica ha smesso e c’è stato un silenzio assurdo, ma è durato poco, un attimo dopo c’era un sacco di gente che urlava. Il tipo in terra tremava tutto e faceva dei versi strani, con gli occhi sbarrati e tutto quel sangue che gli usciva dalla gola. La sua tipa, bianca come un lenzuolo, stava inginocchiata di fianco a lui, la bocca aperta e il sangue che le scorreva tra le dita.
L’ambulanza è arrivata presto, mi hanno detto, ma io non l’ho sentita. Quando mi sono accorto che avevo ancora in mano il collo della bottiglia l’ho lasciato cadere, mi sono arrampicato sullo sgabello e mi sono appoggiato al bancone con la fronte. Era fresco e anche appiccicoso, ma a me non importava.
Sono rimasto così per un po’, con gli occhi chiusi, respirando forte, cercando di non pensare. Poi quando ho sentito la tipa che urlava e poi iniziava a singhiozzare, ho capito. Allora ho alzato la testa, ma non mi sono voltato a guardare, sono rimasto fermo un momento e l’ho lasciata ricadere sul marmo del bancone. Forte. Una volta, due volte, tre volte. Sempre più forte. Faceva male, ma non riuscivo a smettere. Ho continuato finché sono venuti gli infermieri e mi hanno portato via.
Adesso qui ho tanto tempo, per pensare, così mi sono ricordato che da bambino tante volte battevo la fronte per terra, forte. Mi accucciavo sul pavimento e poi giù deciso, sulle piastrelle fredde. Restavo per un momento fermo immobile, ad aspettare il dolore. Poi scoppiavo a piangere, i palmi delle mani sul pavimento freddo, gli occhi chiusi e la bocca spalancata. Chiedevo aiuto. No, chiedevo amore.
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