Per favore

Lui me lo diceva sempre, che mi amava. Tutti i giorni, tutte le notti, tutte le ore che passavamo insieme. Lo diceva così spesso, che ho finito per crederci anch’io. Nonostante.

Nonostante le botte, le cattiverie, le male parole, le piccole crudeltà di tutti i giorni, come negarmi il permesso di mangiare un cioccolatino o un gelato perché ti ingrassa, mica vorrai diventare come tua madre, no?

Già, il permesso. È la storia della mia vita, chiedere il permesso.

Prima a mio padre, per potermi mettere una gonna un po’ più corta o dei jeans appena un po’ aderenti, un filo di eyeliner o un velo di ombretto. Per uscire la sera, soprattutto. Soltanto al sabato, eh, e nemmeno tutte le settimane. Mentre mio fratello tornava alle tre del mattino e l’unica cosa che rischiava era un bonario fila a letto, che sarai stanco, accompagnato da una complice strizzatina d’occhi.

Un’unica volta io sono arrivata in ritardo: all’una e un quarto invece che all’orario comandato di mezzanotte, per aver perso l’ultima metro e dopo essermi fatta sei chilometri a piedi, sotto la pioggia battente, con l’ansia e il cuore in gola. Ero appena entrata in casa, fradicia e angosciata, la mano ancora sul battente dell’ingresso, che è arrivata la prima sberla, insieme alle solite male parole, rabbiose, ma sussurrate, per non svegliare il vicinato.

Non sono più uscita per un bel po’, al sabato. Poi ho ripreso, con molta cautela, gli occhi sempre all’orologio, tra una risata falsamente allegra, una coca ingoiata di fretta e l’attenzione distratta alle chiacchiere delle amiche. Quando rientravo – sempre largamente prima di mezzanotte, per non rischiare – mio padre lo trovavo in poltrona, al buio, davanti alla TV senza audio. La sua occhiata indagatrice, gli occhi freddi che mi scandagliavano dal basso in alto e il rapido cenno del capo che indicava la mia camera erano la conclusione della mia serata di libertà.

Poi, quando un infarto mio padre se l’è portato via – proprio mentre stava prendendo a schiaffi mia madre, ma questo il prete al funerale non l’ha detto – mio fratello si è sentito in dovere di prendere il suo posto. Il mio accenno di ribellione non è andato oltre uno strozzato tu non sei papà, stroncato da uno schiaffo a mano aperta che mi ha lasciato i segni per giorni, obbligandomi a restare a casa da scuola, accampando un’influenza inesistente, prontamente suffragata dalla giustificazione compiacente di mia madre, passata dalla sudditanza cieca verso mio padre al timore reverenziale verso mio fratello. Suo figlio, ormai assurto alla carica di giudice massimo del tribunale familiare. Dove la colpevole ero sempre e soltanto io.

Potete darmi torto, se il primo ragazzo che mi ha fatto un sorriso gentile e quattro stracci di complimenti su com’ero simpatica e bellina, me lo sono sposato?

Eravamo al matrimonio di un’amica. Lui era così carino, mi chiedeva un sacco di cose, di me e della mia vita, sembrava proprio che gli interessasse davvero. Mi guardava con occhi dolci, piegando un poco la testa di lato mentre io parlavo, parlavo. E anche se, come sempre ai matrimoni, eravamo tutti un po’ bevuti, è stato molto corretto. Quando siamo andati a fare due passi nel giardino del ristorante, anche se ormai era buio non mi è saltato addosso come avrebbero fatto i ragazzi del giro di mio fratello. Si è limitato a una mano sul fianco e un bacio leggero sul collo. Mi sa che è questo, che mi ha colpito di più, insieme al fatto che mi ascoltava raccontare.

Anche la prima volta che siamo stati a letto, un pomeriggio domenicale a casa sua, è stato gentile e dolce. È stato tutto piuttosto veloce e io ho sentito poco o niente. Per me era la prima volta, ma non gliel’ho voluto dire prima. Quando poi gliel’ho detto, lui è stato molto colpito e voleva rifarlo subito, perché devi venire anche tu, se no non è bello. Quando me l’ha detto, giuro che mi sono venuti i lucciconi, ma ho fatto finta di niente, mi sono stretta a lui e ho detto che andava bene così. Due mesi scarsi più tardi, ci sposavamo anche noi.

Che ero finita dalla padella nella brace, come si dice, non me ne sono accorta subito. Sì, c’erano tutte quelle storie quando in ufficio mi chiedevano di fermarmi un’ora in più. O la sua mania di farmi portare i capelli raccolti, invece che sciolti sulle spalle come piaceva a me. O le camicette che dovevo portare chiuse fino al collo e guai se c’era un bottone slacciato di troppo e si vedeva l’attaccatura del seno. Però erano tutte cose che mi diceva quasi ridendo, dai, amore, con la testa piegata e quello sguardo ironico che mi faceva sentire stupida, se insistevo.

In fondo, mi dicevo, mi ama e si preoccupa per me.

È stato come scivolare su un piano inclinato. C’è stata la volta che per chiudermi un bottone della camicetta secondo lui troppo malandrino, mi ha strattonato. Poi però si è scusato subito.

Poi il trucco, appena sposati, non mi sembrava vero di potermi permettere un filo di eyleiner e un po’ di fondo tinta. E le gonne un po’ corte, senza esagerare. E nelle grandi occasioni, un velo di rossetto che mi faceva sentire sexy. Ma non esagerare, non sta bene. E io toglievo.

Il punto di svolta sono stati dei leggings azzurro polvere, per lui così aderenti che ti si vede anche la figa. Non era vero, erano aderenti ma non così tanto, e poi avevo un maglione lungo sopra che non lasciava vedere proprio niente. Ma lui ha insistito, con un secco non ti devi vestire da troia, hai capito? Io l’ho guardato a bocca aperta e sono ammutolita. Mi sembrava di sentire mio padre. Poi mi sono sentita lo stomaco attorcigliarsi, una vampata di calore salirmi dal collo alle orecchie, mi è montata dentro una rabbia sempre più forte, che premeva e mi soffocava. Così mi sono ribellata, l’ho guardato di brutto e gli ho urlato come ti permetti. Eravamo in camera da letto, ricordo bene la mia figuretta sottile inguainata nei leggings, le braccia stese lungo il corpo con i pugni chiusi, in piedi davanti a lui che mi squadrava dall’alto con un’aria tra lo stupito e il cattivo.

E lì è arrivato il primo schiaffo. Duro, con il dorso della mano dove porta l’anello con la corniola che gli ho regalato per il primo anniversario, così mi è rimasto non solo il segno delle dita, ma anche uno sbrego che mi ha fatto sanguinare. Sono finita lunga distesa sul letto, a guardarmi nello specchio con gli occhi rossi e la guancia sporca di sangue, che dopo mi è toccato lavare la sovracoperta, ma con l’acqua fredda, se no rimane il segno.

Era la prima volta che mi picchiava. E non si è neppure scusato. Ha biascicato qualcosa tipo così impari a fare la stronza ed è uscito sbattendo la porta. Quando è tornato, puzzava di vodka da far schifo. Io ho fatto finta di dormire, ma lui mi è venuto vicino e mi ha messo una mano tra le gambe e una sul seno. Io non volevo, ma ho lasciato fare, pensavo magari è un modo di fare pace.

Invece no. È stato rapido e brutale: mi ha fatto girare bocconi e mi ha preso da dietro, facendomi anche male. Per fortuna è stato veloce, pochi colpi ed era già venuto. Quando mi ha sentito piangere nel buio, invece di consolarmi mi ha dato una spinta sulla schiena e con un tanto lo so che ti è piaciuto, troietta si è voltato dall’altra parte e dopo due minuti russava.

Questo è stato l’inizio. Il seguito – è durato due anni – è stato un susseguirsi di scenate sempre più violente, punteggiate di schiaffi, poi di pugni e se cadevo anche di calci, preferibilmente nella pancia. Io cercavo di proteggermi rannicchiandomi, chiudendomi le braccia intorno alla testa, ma senza gemere o lamentarmi, perché avevo scoperto che non lo sopportava e diventava ancora più violento e cattivo.

Sono passati due anni, così. Alternando sempre più brevi periodi di pace apparente con esplosioni ogni volta più violente, scatenate da un gesto, uno sguardo, una parola sfuggita e interpretata come ribellione. Con l’unica tregua delle sue rare trasferte di lavoro, durante le quali mi tempestava di telefonate, a ogni ora del giorno e della notte. Soprattutto della notte, imponendomi la videochiamata, per controllare che fossi davvero sola. Ingiungendomi di andare in bagno per fargli constatare che non ci fosse nessuno rintanato lì. E sogghignando quando io insonnolita e stanca, piagnucolavo di lasciarmi dormire, che la mattina dopo dovevo lavorare.

Ero in cucina, il giorno che ha frugato nella mia borsetta e ha trovato la lettera dell’avvocato che mi ha consigliato mia sorella. La stringeva nel pugno, agitandola davanti ai miei occhi terrorizzati. Quello che mi ha fatto più paura è stato che per una volta non urlava. Ha parlato a bassa voce, quasi sussurrando, gli occhi iniettati di sangue inchiodati nei miei, la bocca puzzolente di vodka con un filo di bava all’angolo delle labbra. Ha detto tu non te ne vai, hai capito, troia? E rideva, i denti scoperti tra le labbra screpolate, che d’inverno gli davo sempre il burro cacao, se no gli venivano le piaghe.

Io ero come paralizzata, faticavo a respirare, tremavo, non riuscivo a distogliere gli occhi dai suoi. Sono arretrata di mezzo metro, fino a scontrarmi con il piano di lavoro della cucina, dove stavo preparando la cena. È stato il mio tump contro il ripiano, che gli ha fatto abbassare lo sguardo e vedere il coltello.

C’è una bava di vento, qui, che freme sulle foglie degli alberi e agita appena i fiori nei vasi. Il sole è pallido, ma annuncia un anticipo di primavera. Quello che è stato, è stato. Chiedo solo una cosa: per favore, per favore! Fate che non sia seppellito qui, vicino a me.

©Euro Carello

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