Maria M.

Una luce fioca e poco convinta filtra dalle persiane serrate: le 5, forse le 6 del mattino. A dirmi l’ora nessuna sveglia od orologio ma la consuetudine che da anni (secoli?) mi spinge ad aprire gli occhi poco prima o poco dopo l’alba.
Mi rigiro su questo materasso scomodo e lo sguardo vaga sui contorni dei pochi oggetti che mi sono diventati stanza, casa, mondo.
Un vecchio comò sbilenco, un tavolino, una vaschetta di plastica scolorita dall’uso, stracci che sarebbero abiti.
L’umidità sui muri scrostati disegna ampie geografie, terre lontane, poi fiori e, se mi concentro, volti e sguardi.
Concentrarsi, già.
È faticoso, appuntare l’attenzione e la memoria. Dopo qualche minuto i pensieri scappano e io non riesco a inseguirli e ad acchiapparli.
I pensieri fuggono e sembrano schernirmi. Diventano voci insolenti e cattive.
Mi dicono pazza, pazza, pazza.
Anche la mamma mi chiama pazza.
E i miei fratelli, anche loro, mi chiamano pazza.
Io vorrei trovare le parole giuste per gridare loro la mia normalità, vorrei scovare parole giuste, rotonde e potenti, ma la paura le scioglie nella gola.
Diventano rantoli, sussurri, gorgoglii indistinti e senza efficacia.
Fabio non mi chiama pazza, ma nemmeno mamma.
Non mi chiama.
Sembra ignorarmi, finge che io non esista e non sia mai esistita.
Le poche volte che l’ho intravisto nel corridoio, l’ho sorpreso a lanciarmi sguardi fuggevoli.
Curiosità? Pietà? Disprezzo?
Non riesco a capirlo.
È bello, mio figlio, alto e dritto come lo era suo padre.
Mi è sfuggito dalla memoria, il volto di suo padre.
Ricordo solo la sua figura alta e imponente su di me, che sono piccola, secca e asciutta come il letto di un fiume riarso.
Ricordo le sue mani scure e il suo odore di sale che nemmeno il tanfo di questa stanza è riuscito a coprire dopo tanti anni.
Tanti anni, sì.
Quanti, non so.
Ho perso il conto delle ore, dei giorni, dei mesi. Ho perso il conto delle stagioni e i ricordi si affastellano gli uni sugli altri, ora netti e distesi, ora confusi e accartocciati.
Pazza, sei pazza, mi ripete mamma, con una voce che negli anni ha smesso di essere dura e cattiva.
Non c’è nemmeno più disprezzo nelle sue parole, ma una sorta di ineluttabilità.
C’è chi nasce bianco e chi nero, chi maschio, chi femmina, io sono nata pazza e questo è il mio posto, lontana dal mondo in cui non ho diritto a stare.
Mi fa male la testa, non devo pensare perché i ricordi si confondono, prendono a girarmi attorno in una danza veloce che mi dà vertigini e paura.
Sento la chiave che gira nella serratura: deve essere mamma, che entra ogni mattina a portarmi quello che sarà colazione e pranzo e cena.
Un giro, due giri, il cigolìo dei cardini e il rumore del legno che cede un poco.
Lo stesso rumore da tanto tempo, lo stesso rumore di tanti anni fa.
Tu da qui uscirai morta, aveva urlato mamma.
E quelle parole, mi avevano fatto più male delle botte, degli schiaffi e dei calci.
Vergogna, disonore, peccato.
Io non capivo: perché vergogna? Perché disonore? Perché peccato?
Non c’era vergogna nelle mani di quell’uomo alto e forte quando mi abbracciava e mi avvolgeva tutta quanta, non c’era disonore nelle sue parole amorose, non c’era peccato nella sua pelle ruvida e scura, buona da carezzare e mordere come la crosta del pane.
Una mano posata leggera sulla mia spalla mi aiuta a scrollarmi da dosso i ricordi.
Sussulto.
È una mano diversa, che non conosco.
Alzo lo sguardo e incontro gli occhi di un uomo mai visto: mi dice qualcosa ma la paura è un ronzìo che mi assorda ed io non lo capisco.
Mi fa cenno di alzarmi, mi aiuta a coprirmi.
Dietro di lui altri uomini.
Ho paura.
Mi alzo, cado carponi e carponi fuggo in un angolo della mia stanza (casa, mondo).
Accartoccio le gambe, mi abbraccio la testa.
Lasciatemi qua.

(Liberamente ispirato alla storia di Maria M.)

©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
©Immagine Pixabay
©Podcast: voce Viviana Gabrini, elaborazione audio Studio Lenny Farmer

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