Margherita

La pendola del refettorio segnava le tre del pomeriggio. Dalle persiane, serrate contro il sole feroce, filtrava una luce sottile che il danzare della polvere rendeva tremula. Sembrava che la calura avesse sospeso il tempo e tutti i suoi abitanti in un istante fisso, privo di movimenti.
Nessuno lungo i corridoi dalle pareti bianche e anonime. Nessuno sui gradini di granito che portavano in giardino.
Margherita si guardò attorno con circospezione e, stringendo al petto una borsa di panno colorato, sgattaiolò dal retro, nascondendosi dietro la siepe di bosso, alta quanto lei.
Il cuore le batteva forte e la testa le sembrava girare un poco. Fra lei e il cancello non c’erano più di dieci metri. Poteva farcela. Ancora un’occhiata attorno, poi quasi di corsa verso l’uscita.
Era fuori. Ce l’aveva fatta. Ce l’aveva quasi fatta.
Con un sorriso e sempre guardandosi alle spalle, Margherita si avviò verso la stazione: le gambe corte e magrissime si muovevano ora rapide ora incerte e lei, sottile come una velina, si ritrovava a scivolare contro i muri alla ricerca di ombra.
«Sto scappando, sto scappando, sto scappando. Sono scappata.»
Il pensiero le strappò una risata incosciente e bambina.
Una decina di minuti, forse meno e si ritrovò nel viale della stazione, che le regalò una provvidenziale frescura; quando arrivò in biglietteria aveva solo un po’ di affanno.
«Un biglietto per il mare, senza cambi, grazie» recitò tutto d’un fiato, come se avesse paura di cambiare idea a metà della frase.
Il bigliettaio la guardò con curiosità e per un momento Margherita ebbe paura che capisse e la rispedisse da dove era venuta.
Invece, si limitò a sbuffare: « Un nome. Mi serve il nome di una località».
Margherita venne assalita dalla voglia di scappare e tornare indietro. Quell’uomo la intimidiva e riusciva ad amplificare i suoi dubbi. Forse stava facendo una sciocchezza. Forse avrebbe dovuto tornare sui suoi passi, sperando che nessuno si fosse accorto della sua fuga. Ebbe un momento di esitazione, ma poi la voglia di mare riprese il sopravvento: «Mi dia un biglietto per il mare, ma senza cambi. Ci voglio arrivare con un solo treno. Per piacere».
Il ferroviere borbottò qualcosa di incomprensibile, ma poco gentile, a mezza voce, poi consultò il terminale e infine sentenziò: «Sori. Regionale in partenza fra venticinque minuti dal binario 2. Solo andata o anche ritorno?»
Margherita acquistò un biglietto di andata e ritorno e calcolò che con i soldi rimasti poteva comperarsi una bibita fresca e anche un gelato. Magari anche un panino. Sorrise al ferroviere che la ricambiò con uno sguardo arcigno e antipatico.
L’uomo le metteva soggezione e Margherita gli voltò le spalle in fretta, rifugiandosi nella sala di attesa, che era vecchia, scrostata e dai muri ricoperti di scritte oscene e inutili.
Come stremata da una grande fatica, Margherita si lasciò andare contro un sedile di legno sgangherato e chiuse gli occhi, riaprendoli di colpo quando si vide davanti lo sguardo colmo di rimprovero di suor Onorata, la direttrice dell’Istituto da era fuggita.
Si era addormentata. Che ore erano? Aveva forse perso il treno?
Angosciata, fece correre lo sguardo lungo la parete, fino all’orologio: le tre erano passate solo da venti minuti. Il colpo di sonno che l’aveva colta non era durato più di una manciata di secondi.
Inquieta, decise di attendere il suo treno sulla banchina; si accomodò su una panchina di granito e si arrotolò di nuovo nel gomitolo dei suoi pensieri.
Qualcuno si era accorto della sua fuga? La stavano cercando? E dove? All’interno dell’Istituto? In paese? Forse qualcuno l’aveva vista camminare verso la stazione e da un momento all’altro sarebbero venuti a prenderla, facendo fallire la sua fuga.
Margherita accolse con sollievo l’arrivo del regionale in stazione, salì trionfante su un treno che le pareva nuovo di zecca, colorato e forse perfino scintillante e, con un sorriso, si accomodò nel primo posto libero accanto al finestrino.
I dubbi e le paure, minuto dopo minuto, chilometro dopo chilometro, venivano diluiti e stemperati da una felicità bambina che la faceva sorridere alla sua immagine riflessa nel finestrino.
Per quasi un’ora il treno le fece scivolare sotto gli occhi una campagna riarsa punteggiata, qua e là, di case, poi condomini fitti come alveari, poi colline coperte di boschi, poi di nuovo palazzi grigi e anonimi.
Infine, il mare.
Lo scorse da lontano, virgola scintillante incastonata fra tetti e cemento. Una curva improvvisa lo nascose alla sua vista, per poi restituirglielo, questa volta sotto la forma di una pennellata ampia, di un turchese brillante e sfacciato.
Margherita si fece scappare un piccolo grido di eccitazione e subito dopo si guardò attorno, vergognandosi: in realtà, nessuno pareva essersi accorto della sua febbrile agitazione e nemmeno condividere il suo entusiasmo.
Alla stazione di Genova, il treno si svuotò e una nuova ondata di viaggiatori prese il posto di chi era appena sceso.
Nel suo scompartimento entrò una giovane donna bionda insieme a due bambini: una ragazzina di una decina d’ anni e un bimbetto di cinque o sei.
Margherita salutò il trio con un cenno del capo e un sorriso e quando il treno riprese la sua corsa, tornò a guardare il panorama fuori dal finestrino.
I due bambini parlottavano fitto fitto fra di loro e Margherita si mise a osservarli: il piccolo, biondissimo, aveva una faccetta tonda come la luna, appariscenti occhiali altrettanto tondi, rossi e gialli, e mani paffute.
La sorella, era invece castana, aveva il viso affilato, ma gli stessi occhi vispi e arguti del fratellino.
Margherita ripensò ai suoi fratelli: da quanto tempo non li vedeva?
La signora bionda disse qualcosa ai figli, poi si alzò per cercare la toilette: «State buoni e non muovetevi. Torno fra cinque minuti. E non ribaltate il treno, chiaro?»
I bambini annuirono con veemenza.
Il maschietto decise di non perdere tempo e ruppe il ghiaccio: «Ma tu viaggi da sola?»
Margherita non amava parlare con gli sconosciuti, ma i bambini le facevano molta meno paura degli adulti.
« Non dare fastidio – lo riprese la ragazzina – hai sentito la mamma.»
Margherita sorrise ad entrambi: «Non mi dai affatto fastidio e sì, sono in viaggio da sola.»
«Stai andando dai tuoi nipoti?»
«Ettore, smettila di fare domande!»
«Io non ho nipoti» rispose Margherita con pazienza.
«Però hai i capelli bianchi» osservò Ettore pensieroso.
«Vero – ammise Margherita – ho i capelli bianchi perché sono anziana, ma non ho avuto bambini e quindi non sono diventata nonna.»
Le questioni famigliari di Margherita non sembravano interessare più di tanto il piccolo che stette in silenzio qualche secondo, salvo poi tornare alla carica.
«Ma tu sai nuotare? Io sì, mi ha insegnato il mio papà. Adesso la mamma ci sta portando da lui: viviamo un po’ con la mamma e un po’ con il papà.»
La sorella di Ettore si abbandonò contro il sedile con un flebile gemito di sconforto: arginare il fratello le era impossibile. Margherita sorrise di nuovo.
«No, non ho mai imparato.»
Ettore sembrava meravigliato: «Perché tuo papà non ti ha insegnato?»
Margherita ripensò a suo padre: il viso cotto dal sole, le grandi mani scure spaccate da anni di lavoro nei campi, la parlata dialettale, il passo stanco della sera, il peso dei figli da crescere senza più la moglie. Avvertì una piccola stretta in mezzo al petto e un pizzicore fra gli occhi e l’attaccatura del naso.
«Nemmeno il mio papà sapeva nuotare, ma sapeva fare un sacco di altre cose.»
«E che cosa?»
«Sapeva potare gli alberi perché facessero tanta frutta, sapeva pigiare l’uva e fare il vino, sapeva quando era il momento di arare e seminare, sapeva mungere le vacche e sapeva perfino fare il formaggio.»
Ettore pareva colpito: «Io non ho mai visto una mucca vera. Solo sui libri. E in televisione.»
Mentre ascoltava il piccolo, Margherita si ricordò di avere con sé delle caramelle all’arancia: frugò nella borsa di panno colorato, ne prese una manciata e le offrì ai bambini.
Ettore fece per allungare una mano verso le caramelle, ma la sorella lo bloccò: «La mamma – spiegò con aria molto seria – dice che non dobbiamo accettare niente dagli sconosciuti.»
«Mi sembra un consiglio molto sensato» commentò altrettanto seria Margherita.
Negli occhi di Ettore si leggeva la delusione.
«Tu come ti chiami?» aggiunse la ragazzina.
«Margherita.»
«Io Antonia e lui è Ettore.»
«Ora che ci siamo presentati – osservò Margherita – non siamo più tanto sconosciuti.»
La considerazione convinse entrambi i fratelli, che fecero sparire in un baleno tutte le caramelle.
Quando la madre rientrò nello scompartimento, Antonia ed Ettore stavano raccontando a una divertita Margherita le loro lezioni di nuoto insieme al padre. Il piccolo cercava di convincerla a comperare un paio di braccioli perché, sosteneva, con quelli chiunque poteva stare a galla.
La giovane donna si scusò per l’invadenza dei figli; lei avrebbe voluto rispondere che la divertiva parlare con loro, che le loro vocette le facevano pensare al cinguettare dei passeri e le mettevano allegria, che le piaceva immaginare Ettore alle prese con onde e granchi di mare, sulle spalle possenti del suo papà.
Margherita avrebbe voluto dirle un sacco di cose, ma la sua solita timidezza prese il sopravvento e, arrossendo, si limitò a rispondere che i bambini non le davano nessun fastidio.
Un minuto dopo, il treno entrò nella stazione di Bogliasco e la famiglia scese. Ettore e Antonia la salutarono come ci si saluta fra vecchi amici, con tanto di mani e braccia levate e grida festanti.
A Margherita venne quello che sua nonna chiamava “il misero” e sua madre “il magone”.
«Sono proprio una vecchia sbilenca» si rimproverò, consolandosi con l’ultima caramella rimasta nella borsa.
Quando il treno entrò nella stazione di Sori, uno sconosciuto gentile la aiutò a scendere, guardandola con curiosità. Lei lo ricambiò con un breve sorriso, poi guadagnò l’uscita e si ritrovò su un piazzale fiancheggiato di alberi. Si guardò attorno, vide la strada che portava al mare e la imboccò.
Oramai erano quasi le sei di sera. Il sole era meno impietoso e i turisti stavano facendo il percorso inverso al suo, abbandonando la spiaggia con il loro carico di asciugamani, stuoie e sdraio.
“Eccolo” pensò con sgomento quando finalmente fu davanti all’immensa distesa azzurra. Chiuse gli occhi e subito li riaprì, come a sincerarsi che quello davanti a lei non fosse un sogno oppure un’apparizione.
Il mare non sparì dalla sua vista e anzi la salutò con una risacca che aveva il suono di mille monete scroscianti.
Margherita tolse i sandali e li infilò nella borsa, affondando i piedi nella sabbia.
Sorrideva, Margherita, e quasi non riusciva a credere che tutta quella meraviglia fosse lì, ai suoi piedi e a sua disposizione.
Fece qualche passo, poi sollevò l’orlo della gonna e lasciò che l’acqua le accarezzasse i polpacci. Il salmastro saliva su per le narici e Margherita si ricordò che il mare aveva anche un sapore.
Da quanto tempo non si sentiva così felice?
Prese a camminare lungo la battigia, incurante del fatto che qualche spruzzo le inumidisse i vestiti.
Erano esattamente dieci anni che non vedeva il mare, da quando era morto suo marito e lei si era ritrovata fra le mura austere della sua nuova casa, quell’Istituto gestito da religiose dove i parenti avevano ritenuto potesse vivere sicura e protetta.
Quando aveva conosciuto Giovanni, Margherita aveva quasi trent’anni: aveva sempre lavorato la terra, nel podere del padre, sapeva leggere e scrivere, sapeva tirare la pasta ed era svelta con gli aghi da calza, ma non aveva mai visto il mare.
Glielo aveva confidato la sera della festa del paese, mentre bevevano una gazzosa, seduti a un tavolino del Bar Centrale. Giovanni l’aveva invitata a ballare un valzer, ma nello stesso momento in cui la coppia aveva raggiunto il centro della pista, l’orchestrina era passata d’improvviso ad una polka indiavolata, che aveva messo entrambi in difficoltà. Nessuno dei due era un granché come ballerino e dopo essersi pestati i piedi a vicenda, avevano deciso di sedersi e parlare.
Giovanni aveva due anni in più di lei: era alto, forte e robusto. Guidava la corriera che collegava il paese al capoluogo, era sempre di buon umore e non aveva vizi: non fumava, non beveva e non giocava alle carte.
Margherita si chiese come mai un così bel ragazzo, con un buon lavoro e di buona indole, non si fosse ancora sposato.
Giovanni invece sapeva benissimo perché Margherita fosse ancora zitella: era la prima di una nidiata di otto figli, la madre era morta di parto una quindicina di anni prima e da allora la ragazza si era divisa fra il lavoro nei campi e la cura dei fratelli.
A Giovanni, Margherita piaceva e non gli importava delle canzonature degli amici, secondo i quali lei, oramai, era troppo vecchia per maritarsi.
«Scegliti una ragazza giovane» gli dicevano amici e colleghi.
Ma a lui piacevano quella testolina riccia e bruna, quegli occhi grigi e timidi che scivolavano da tutte le parti ogni volta che incrociavano i suoi. Gli piaceva quella ritrosia contadina che le imporporava le guance e le faceva abbassare la testa quando sorrideva.
Giovanni stava raccontando a Margherita di una recente gita al mare con i colleghi dell’autolinea, quando lei, che di solito parlava pochissimo, gli rivelò di non aver mai viso il mare.
«Scherzi?» le chiese esterrefatto.
Margherita fece di no con la testa, vergognandosi della sua stessa ammissione.
Impacciata, sollevò lo sguardo: si aspettava che lui la canzonasse e invece incrociò uno sguardo dolce e comprensivo.
«Se accetti di sposarmi – le disse Giovanni scandendo le parole a una a una, con molta lentezza – ti prometto che in viaggio di nozze ti porto a vedere il mare».
Sei mesi dopo, un treno lento e lunghissimo li conduceva in una stazione balneare della riviera ligure. Era il mese di aprile, ancora troppo freddo per fare il bagno, ma a Margherita non interessava. Quell’immensità di acqua la incantava e allo stesso tempo le faceva paura. Certo non avrebbe mai pensato di immergersi fra le onde che le parevano suadenti e minacciose. Le bastava guardarlo, annusarlo, allungare una mano per poterlo toccare.
Quel giorno, ricordava Margherita, avevano pranzato su una panchina di fronte alla spiaggia, con i panini portati da casa. Si erano sentiti ricchi e felici, padroni del mondo.
Da quella volta e per trentotto anni, a ogni anniversario Giovanni l’aveva portata al mare, fra l’odore di salsedine e le grida dei gabbiani.
Poi lui era morto, i parenti avevano stabilito che lei non fosse in grado di vivere da sola e le avevano trovato posto in quella che lei chiamava ospizio e loro “casa famiglia”.
Margherita si scrollò di dosso il peso dei ricordi con un’alzata di spalle e si chiese che sapore potesse avere l’acqua del mare. Le avevano spiegato che era salata, molto salata, come la salamoia delle olive, ma in tanti anni non le era mai saltato in mente di assaggiarla.
Giovanni, probabilmente, l’avrebbe presa per pazza.
Ettore, invece, l’avrebbe forse canzonata per non aver mai assaggiato il mare.
Decisa, allungò una mano verso le onde, poi si infilò un dito in bocca. Lo ritrasse, disgustata e divertita: il mare era così salato da diventare amaro.
Rise e lo assaggiò di nuovo.
Lo sferragliare di un treno che passava oltre la strada le fece ricordare che doveva rientrare e che doveva sbrigarsi o avrebbe perso l’ultimo treno utile per rientrare in Istituto.
Le assistenti avevano di sicuro notato la sua assenza e Margherita immaginò lo scompiglio che la sua scomparsa poteva aver suscitato.
Sospirò e pensò che non le importava niente.
Se per per il resto del mondo era troppo vecchia e svaporata per vivere da sola nella sua vecchia e amata casa e prendersi cura di se stessa, si disse, allora poteva essere altrettanto vecchia e svaporata per scappare di nascosto, salire su un treno e scendersene al mare.
Si ricordò che nella borsa aveva soldi a sufficienza per un gelato e anche per una bibita fresca.
Un gelato, sì, era proprio quello che le ci voleva.
Sorrise ancora una volta al mare, promettendogli sottovoce che l’anno seguente sarebbe tornata.

©Viviana Gabrini
©Foto Pixabay

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