Mare profondo

Ti avevo promesso che ti avrei portata al mare, no? e glielo chiese con quel tono che sottintendeva: ed io le promesse le rispetto sempre altrimenti nemmeno le faccio, quel tono che non ammetteva repliche, quel tono da ho ragione e basta, quel tono che un po’ la indispettiva e un po’ la inteneriva.
Erano a fine gennaio ma in quel mare scintillante di sole e in quell’aria che gli batteva sugli zigomi e sulla fronte solcata da tenui rughe, lui riusciva a vedere un’imminente primavera.
Mare profondo, mare più bello del mondo.
Erano i versi di una vecchia canzone marinara che aveva ascoltato da bambino chissà da chi.
Ricordo sfocato, che sapeva di vacanze agostane e famigliari, di bagni solitari e timidi, di serate nascoste sugli scogli a fissare il cielo, perso in pensieri troppo malinconici per un ragazzino così piccolo.
Solo i richiami della madre potevano scuoterlo e distoglierlo da quel mondo privato a cui nessuno aveva accesso.
Era nato nel cuore della pianura, ma era con il mare che sentiva un legame di carne e di sentimenti.
Mare profondo, mare più bello del mondo.
Sorrise al ricordo di un sé bambino e poi adolescente.
Un adolescente scontroso e impacciato, che sembrava non sapere che farsene di quel corpo troppo lungo e troppo magro che lo metteva in imbarazzo di fronte a ragazzine che gli parevano sempre sicure e sfrontate.
Gonfiando i polmoni, distese le braccia e le intrecciò sopra la testa.
La piacevole tensione di muscoli e tendini.
Chiuse gli occhi e per qualche minuto cercò di accordare il suo respiro con quello del mare.
Dentro e fuori, inspira ed espira, un ritmo cadenzato e costante.
Riaprì gli occhi: tutto quel blu lo invogliava ad un tuffo e se solo fosse stato un poco più caldo, si sarebbe tolto i vestiti per lasciarsi abbracciare da quell’acqua.
Affondando nella sabbia, iniziò a camminare verso gli scogli: appena sopra si arrampicava una scaletta che portava ad una passeggiata lunga un paio di chilometri.
Avanzava piano, lo sguardo volto verso il basso a cercare una conchiglia da infilare in tasca.
Ne raccolse una piccola, dai bordi lisci e regolari, con il dorso sfumato di rosa e l’incavo bianco e perlaceo.
Quando fu in cima alla scala, si fermò a prendere fiato, gli occhi fissi in un punto all’orizzonte.
Peccato non avere con me un sigaro, pensò.
Una coppia gli scivolò al fianco, correndo.
Uomo e donna, coperti di tute sportive e cuffie, procedevano perfettamente sincronizzati, coordinati tanto nella cadenza pesante dei passi quanto nel respiro affannoso.
Erano le prime persone che incrociava da quando era sceso dall’auto.
Camminò ancora per una decina di minuti, fino a quando raggiunse il punto più alto della panoramica, da cui si vedeva l’intero golfo.
Te lo avevo promesso, no? ribadì di nuovo.
Infilò la mano destra in tasca e ne cavò una fotografia.
Sorrise nel guardarla: il mio posto non è davanti ma dietro all’obbiettivo, protestava lei ogni volta che lui cercava di scattarle una foto.
Quella gliel’aveva scattata quasi di nascosto, mentre lei preparava la cena.
Solo all’ultimo momento si era accorta che lui aveva la digitale in mano e le era uscita una faccetta buffa, fra il divertito e il contrariato.
Te l’avevo promesso, che ti avrei portata al mare, ripeté lui a fior di labbra, questa volta solo a se stesso.
Poi strinse la foto nel pugno e distese il braccio.
Riaprì il pugno e lasciò che il vento facesse volare via la fotografia, spingendola prima verso gli scogli, poi verso l’acqua.

©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
© Foto Viviana Gabrini

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