Ho fatto tutto bene

Sprofondato nel lettino dell’ospedale, il corpo di Pina appare fragile e inerme: fili e tubicini sembrano attraversarlo, mentre una mascherina le copre parzialmente il viso.
Le infermiere si avvicendano silenziose, mentre il medico del turno del mattino ha confermato l’infarto. La prognosi non è buona: nessuno si è ancora espresso con chiarezza, ma le speranze sono poche.
Erio guarda la moglie e non la vede. La sua testa è altrove. Un’altra donna, un’altra vita. Dovrebbe soffrire. Dovrebbe provare paura o dolore o sgomento.
Non ci riesce. Non ancora.
Pina socchiude gli occhi e avverte uno sbuffo alla sua sinistra: uno sbuffo ritmato e meccanico, come un respiro artificiale. Confusamente, vede sopra di sé un groviglio di tubi e infine, si rende conto del dolore. È un dolore sordo e diffuso, che dalle spalle arriva alle braccia, fino ai polsi e alle mani. Il torace si solleva a fatica ed è indolenzito, come se avesse le ossa rotte. Dalla vita in giù, invece, nessun dolore. Le gambe è come se non le avesse.
Attraverso i fili e i tubicini, Pina intuisce una sagoma, ma è troppo stanca per metterla a fuoco.
Bisbiglia qualcosa, poi chiude gli occhi, sfinita.
Sei sicura di voler partire? le aveva chiesto la sorella alcuni giorni prima del volo. Pina è stanca, il cuore le dà problemi, ma la risposta che fornisce alla sorella è senza possibilità di ripensamenti: devo andare a controllare la situazione.
La situazione è un marito che dopo quarant’anni di matrimonio e forse di corna sembra aver perso la testa per una ragazzetta che potrebbe essere sua figlia.
Le corna vanno anche bene. Le corna ci stanno. Gli uomini sono tutti maiali e le donne son tutte puttane, pensa Pina, ma il matrimonio non si tocca, finché morte non vi separi non è una barzelletta o un concetto passato di moda. E così, cuore o non cuore, decide di seguire lui e il suo lavoro dall’altra parte del mondo per poterlo tenere d’occhio.
In fondo è il suo compito di donna, di madre e di moglie: tenere unita la famiglia, tenerla insieme, fare sì che non si sfaldi e non si sbricioli al primo colpo di vento.
Un compito a cui non si è mai tirata indietro e per cui ha sgobbato come un mulo, senza un giorno di sosta.
All’inizio c’era solo miseria e una casa di ringhiera e mobili da due soldi. Poi, con caparbietà e testardaggine e abnegazione, sono arrivati un lavoro sicuro per il marito, un piccolo laboratorio di sartoria per lei, qualche soldo, l’automobile, la casa nuova, un figlio da crescere come il più bravo e il più bello di tutti. Un figlio di cui essere orgogliosa, che però non ha mai sentito suo fino in fondo.
Un figlio cresciuto proprio come voleva lei e per questo, da lei troppo distante.
Pina rivive sulle labbra e all’altezza dello stomaco il dolore di quel giorno in cui suo figlio le dice che no, lei non può assistere alla discussione della sua tesi. Anni di sacrifici e di impegno, anni spesi a raccomandargli di essere il più bravo, il migliore in tutto e su tutti e nel giorno del suo successo, lui la scaccia e la tiene lontana.
A nulla valgono urla e pianti e litigi. Lui è irremovibile.
Si vergogna di me, pensa Pina con sgomento, si vergogna della mia ignoranza, delle mie mani sciupate dal cucito, dalle mie dita secche e screpolate, del mio dialetto, della mia origine contadina.
La laurea arriva ed è come Pina voleva: massimo dei voti.
Il dolore rimane.
Non importa: c’è una casa da mandare avanti, un marito da seguire, una sartoria da far funzionare.
Oramai la miseria e la fame sono un ricordo sbiadito, quasi appartenesse a qualcun altro.
Eppure Pina ricorda bene il suo arrivo in città, poco più che bambina: la guerra è appena finita e suo padre decide di abbandonare la campagna in cerca di lavoro.
Il padre carica lei e la sorella su un carro preso in prestito: due bauli e quattro stracci, un paio di pentole, poche stoviglie sbeccate.
Da quanti anni Pina non pensa a quel suo primo viaggio? Se si concentra, ancora riesce a sentire il rumore degli zoccoli sulle strade dissestate e il cigolìo cadenzato delle ruote.
Papà sembra sempre arrabbiato ed è severo. Pina cerca di rigare diritto e di non commettere errori. Ancora non si perdona di quando aveva lasciato morire la loro vacca da latte, unico bene della sua disgraziata famiglia.
Quanti anni ha? Cinque, forse sei. Il suo compito è di portare la vacca sui prati e tenerla d’occhio mentre bruca l’erba. Non è difficile, ce la può fare anche uno scricciolo come lei.
La vacca è buona e mansueta e basta un rametto di salice appena battuto sui fianchi possenti per tenerla a bada e farla spostare di qua e di là.
Ma Pina è ancora una bambina e i bambini hanno voglia di giocare e si distraggono facilmente.
Pina non ricorda con precisione che cosa sia stato, se il volo di una farfalla oppure la voglia di raccogliere quei fiori gialli, tondi come bottoni. Forse è stata la sete che l’ha fatta allontanare alla ricerca di acqua o forse era stanca e si è assopita su quel cespuglio di menta.
Pina ricorda solo le urla del padre e le botte. La vacca è scappata, è finita sulle rotaie, uccisa da un treno merci che non è riuscito ad evitarla.
Il loro unico bene, la loro unica ricchezza.
Papà la picchia fino a farle diventare nere le braccia, ma la cosa che le fa più male sono le sue parole: incapace. Buona a nulla.
Quel buona a nulla le risuona nella testa e la fa vergognare di se stessa.
Pina riapre gli occhi e sopra di sé vede fili e tubicini; dalla sua bocca esce un borbottio sommesso, pare una confessione.
Il lavoro, la sartoria, le ore di notte a cucire, il bambino perduto e il figlio tirato grande, un marito che lavora, la casa sempre in ordine e pulita, l’automobile, le vacanze, la casa nuova.
Il nodo di dolore che le chiudeva lo stomaco si scioglie. Sollievo. Da quanti anni non si sentiva così in pace?
Pina apre gli occhi, mette a fuoco la figura maschile davanti a sé e sorride: ho fatto tutto bene, papà. Ho fatto tutto bene.

©Viviana Gabrini, 2015 (tratto da I fili di Arianna, Primula Editore)
©Foto Pixabay

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