Gluggaveður

I capelli grigi sciolti sulle spalle, la fronte appoggiata allo stipite della finestra, la donna scosta la tendina con una mano diafana, dalle vene azzurre in rilievo. Il vetro è appannato, le viene voglia di disegnarci sopra con l’indice, come faceva da bambina. Appoggia il dito sul vetro gelato, traccia un breve tratto curvo, poi alza il dito e si sofferma a guardare le gocce, che colano dalla parte liberata dal ghiaccio e scendono lente verso la base di legno scuro. Sul polpastrello è rimasta una sottile patina di ghiaccio. Se lo porta alle labbra e sente il freddo sulla punta della lingua.

Un brivido la scuote, nella camicia da notte di flanella azzurro polvere. Fa freddo, la stufa non basta a scaldare. Lancia un’occhiata distratta all’angolo dove il mucchio di legna si è ormai ridotto di parecchio.

Fuori il sole è già alto, lambisce la panchina coperta di neve e il tavolo di pietra del giardino, dove in estate si mangia carne grigliata e si beve vino freddo.

Per un momento si rivede, nel profumo invitante della griglia, un calice ambrato tra le dita, il seno libero sotto il cotone sottile, rovesciare la testa all’indietro in una risata, sotto lo sguardo innamorato di Matti. Chiude gli occhi, lascia andare un sospiro.

Era molto tempo fa, i capelli erano ancora neri e le mani non erano così ossute e piene di macchie e rughe. E Matti… Matti era ancora lui, il nordico affascinante che l’aveva stregata con la voce calma e carezzevole, con gli occhi chiari che le scavavano dentro così bene.

Lei non è mai stata una che la dava via facile, nemmeno da ragazza, ma con lui è stato così naturale, che il ritrovarsi sotto le stesse lenzuola il mattino dopo non ha avuto niente di strano. Era quasi ovvio, era il naturale epilogo di una cosa e l’inizio di qualcos’altro, non l’avventura di una notte.

Il sole fuori ormai ha raggiunto la finestra, lo strato di ghiaccio si scioglie in rivoli argentati che scivolano sul vetro. In cielo non c’è una nuvola, alla faccia del meteo che prevedeva neve. Allunga il collo, ma non riesce a vedere il termometro appeso alla colonna dell’ingresso, tre metri più in là. Socchiude l’imposta, ma uno spiffero gelido le ghiaccia il collo scoperto e la punta del naso. Richiude in fretta. Brrr. Ci saranno almeno sette o otto gradi sotto zero.  Già ieri sera erano meno due, quando il sole è tramontato dietro i pini.

Gluggaveður (*), come dicono al paese di Matti. Tempo da finestra. Troppo freddo per uscire.

Mentre cerca di coprirsi la gola stringendo con una mano la camicia da notte, si accorge di rabbrividire. Dovrebbe andare di là a prendersi un maglione, ma c’è Matti.

Getta uno sguardo veloce alla porta dell’altra stanza. Le orecchie sono ancora buone, ma non lo sente, il solito russare appena accennato di Matti che dorme, frutto di una pallonata nel calcetto con gli amici di qualche anno fa.

Si avvicina alla soglia a passo leggero, appoggiando una mano alla parete fredda, sporge la testa dentro la stanza, verso il letto di ferro battuto.

Questa volta, il sole in camera non l’ha svegliato. Non ha aperto come al solito un occhio, con uno sbuffo contro il cuscino, tirando fuori un braccio dalle lenzuola ciancicate, prima di esplodere in una risata che ogni volta la sorprende, per la subitaneità del passaggio dal sonno alla piena coscienza. È immobile, ha la bocca semiaperta, i riccioli una volta scuri incolti come al solito, il tatuaggio tribale sulla spalla che sembra ammiccare, nella luce ancora fioca del primo sole.

Sul cuscino a fiorellini provenzali si intravede un filo di bava.

Il suo ultimo gesto più o meno cosciente, ieri sera, è stato allungare verso di lei un braccio pencolante dal lenzuolo, il dito piegato come un invito a raggiungerlo. Come faceva secoli prima. Ma gli occhi socchiusi in una parodia di seduzione e la smorfia ubriaca erano solo una caricatura del ragazzo che era.

Il cellulare di Matti occhieggia da sotto il letto. Gli è scivolato di tasca quando si è lasciato cadere sul piumone, perso al mondo nella sua nebbia alcolica.

È stato in quel momento preciso, che si è deciso tutto.

Lei l’ha visto cadere: un tump sommesso, attutito dal tappeto. Avrebbe potuto lasciarlo lì, oppure prenderlo e metterlo sul comodino. Invece, la curiosità l’ha perduta. Ha allungato la mano, l’ha raccolto, ha lanciato un’occhiata al suo uomo ubriaco perso, spiaggiato sul materasso. Ha esitato, ma solo un momento, poi l’ha aperto, senza neppure sapere bene il perché.

Il video con la ragazza del bar era lì, non ha avuto bisogno di cercarlo. Bionda finta, tette abbondanti come piacciono a lui, che non ha mai smesso di rimproverarle la scarsità della sua seconda. Venticinque anni in meno, che geme sotto di lui, nel loro letto. Questo qui davanti.

Con le chiappe sode bene in vista e le braccine a stecco abbarbicate alle volute nere del ferro battuto. Mentre lui si esibisce a pecorina in quella che vorrebbe essere una performance da urlo e riesce soltanto a risultare un tentativo patetico da vecchio sovrappeso, che stringe i denti per riuscire a non venire al decimo colpo, come al solito.

Quando lei l’ha visto, non ha colto subito, le immagini scorrevano senza che si rendesse bene conto. I tre o quattro vodka-Martini della serata si sono fatti sentire, ha dovuto fermare tutto e ricominciare dall’inizio. Quello che le ha fatto passare la sbronza di botto è stato proprio il letto, sul quale il tutto si svolgeva. Quelle curve di ferro nero che avevano trovato in un bric-à-brac di Nizza, all’inizio della loro storia. E che Matti, appena arrivato dall’Islanda ed entusiasta di queste eccentricità molto mediterranee, aveva voluto ad ogni costo, anche se per le loro finanze di allora era stata una pazzia.

Quando si è resa conto davvero, non riusciva nemmeno a respirare, rannicchiata sul tappeto, piegata in due con le mani a coprire il viso, la bocca spalancata nella ricerca dell’aria che le mancava. Mentre lui russava beato, una gamba penzolante dal materasso e la bocca semiaperta, satura di vapori alcolici.

L’ha guardata stupito, quando con una certa fatica è riuscita a fargli aprire almeno un occhio, porgendogli due dita del suo whisky preferito. Era così sbronzo che ha buttato giù tutto senza una piega.

La boccetta delle pasticche che gli ha svuotato nel bicchiere è ancora lì. Ammicca da sotto il letto, fianco a fianco con il cellulare che lei ha lasciato cadere, come se scottasse.

***

*In islandese significa “tempo da finestra”. Gli islandesi lo usano quando ci sono delle giornate molto belle e soleggiate, ma fa troppo freddo per uscire.

©Euro Carello

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