Gentile presidente

Foto: Josephine Condemi

Gentile presidente,

pensavo a quello che in tempi recenti ha continuato a ripetere. «Però signori, qualcuno pensa davvero che il Governo e le istituzioni italiane potevano fare qualcosa che non hanno voluto fare?». E volevo rassicurarla: no, io non lo penso. Sarebbe stupido e infantile ritenere che si sia scientemente pianificata la strage. Io credo che il punto sia un altro, e molto semplice: noi si vuole capire la dinamica di quel che è accaduto, perché essa appare confusa e contraddittoria.

Lo sono spesso le cose italiane, senza che questo implichi considerazioni ideologiche. Solo che in questo caso il garbuglio amministrativo, il confuso timore di prendere la decisione sbagliata e una precisa atmosfera culturale hanno prodotto molti morti incolpevoli. Perché sa, quei morti non hanno colpa, e questo è un dato difficile da negare. Ne hanno gli scafisti, che tuttavia son strumenti anche loro: non mi sogno neanche di giustificarli, ma, capisce, arrestarli inseguendoli in tutto il globo terracqueo, ammesso che sia possibile, purtroppo non risolve, perché tanto, nelle terre dei disperati, altri disposti a far quel mestiere se ne trovano a bizzeffe. Nella catena di comando – usando una terminologia militare che detesto – sono lietamente vicina al fondo della scala. Il rosario delle procedure mi sfugge. Quello che so, però, è che negli interstizi tra un acronimo e l’altro, nelle maglie di una procedura di cui fatico a comprendere il senso, rimangono incastrate persone che si son fatte sigle: nessun nome per KR46M0. Un luogo (Crotone), un numero d’ordine (la vittima numero 46), un genere (maschio), un’età inaccettabile (0 anni): a questo si è ridotto un neonato in fuga.

In ogni caso, mi creda, attribuire le colpe non è rilevante. Si tratta di stabilire le responsabilità. Questo non spetta a noi cittadini. Non spetta a me. Alla fine dei conti, io sono solo una prof e una scrittrice, e mi declino al femminile. Il mio essere donna, e mostrare di esserlo, mi espone al dolore. E il mio essere una cittadina qualunque, senza alcun ruolo in politica, mi esime da una responsabilità che invece chi sceglie di essere governante deve avere.

Umanamente, non c’è risposta. Solo silenzio e rispetto. Il rispetto di una visita ai corpi e ai familiari che non sanno neanche se piangere o sperare. Politicamente la risposta è una ricostruzione onesta di quel che è accaduto. «Ma siccome sono state date delle risposte…» lei dice. Ne è sicura? Sa, perché le risposte si configurino come tali, occorre che esse siano sostenute dai fatti e comprese dalla comunità governata.
È una regola elementare della comunicazione, politica e non.

Poi ci sono regole meno elementari, che non sono regole.

C’è, per esempio, la questione del rispetto, che non si organizza verticalmente, ma con una misura orizzontale, trasversale alle posizioni gerarchiche. Esso è dovuto, in questi casi, per alcuni semplici, umanissimi motivi. Non sappiamo che cosa significa vivere nelle macerie. Non abbiamo idea di che cosa voglia dire non poter portare il proprio figlio in ospedale perché fuori ci sono i cecchini. Non possiamo immaginare il dolore di abbandonare la propria casa distrutta.

Dunque occorre rispetto.
Il rispetto è il contrario dell’arroganza saccente.
Lo sforzo di comprensione è l’opposto dell’ignoranza.
Non bisogna studiare tanto, mi creda.
Solo un po’.

Basta ricordare che su quel barcone schiantato contro gli scogli a Steccato di Cutro c’erano profughi
dall’Iran, dall’Afghanistan e dal Pakistan. Sono stati luoghi coloniali nei quali il processo di definizione dello stato-nazione ha richiesto e richiede mille aggiustamenti, un eufemismo molto parziale per indicare il succedersi di forme di governo variamente dittatoriali, spesso pilotate da interessi economici e geopolitici esterni. Prima di imbastire parole, per non rischiare che siano dette a caso, io credo che occorra sapere queste cose. E con queste elementari consapevolezze, occorre affrontare i parenti nel luogo del loro dolore. Esporsi all’impopolarità. Mettere in fila i fatti e misurare le azioni.
I latini la chiamavano sapientia cordis: il sapere del cuore che rende impossibile, ma proprio impossibile, ignorare, per esempio, l’inaccettabilità di una morte a 0 anni, senza neanche un nome.
Siamo fatti di speranza e paura, in percentuali variamente dosate. La speranza spinge in avanti, la paura ammanetta a soluzioni rodate, ma non per questo giuste.

Siamo fatti di speranza a paura, e io non so, proprio non lo so, quanta speranza e quanta paura abbiano provato quei corpi nei sacchi bianchi prima di farsi tali. Dunque non mi permetto. E continuo a pensare che nessuno dovrebbe farlo. Tacere, sulle ragioni del viaggio, sarebbe meglio.
Buona fortuna, con quello che verrà.
Nicoletta Vallorani

Foto: Josephine Condemi

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