UN AMULETO E UNA PICCOLA PERSONALE OSSESSIONE
Chi dice che le ossessioni fanno male? Di recente ho scoperto che possono creare e che ogni artista ha almeno una grande, eterna ossessione. Lungi dal dichiararmi artista, in modo più sobrio mi dichiaro scrittore e ritengo di avere il diritto alla mia piccola, personale ossessione. Se ci pensate, un’ossessione non si nega a nessuno e io non mi nego un amuleto nonostante sia (anche) la co-autrice di Umberto Veronesi, uno degli uomini più contrari ad amuleti, gesti rituali e scaramantici, riti e atti apotropaici che abbia mai conosciuto. Ho un amuleto che difendo con la vita e tengo con me quando scrivo, quando medito, quando ho decisioni importanti da prendere e quando ho voglia di sentirmi amata.
Il mio amuleto è fatto di plastica rossa, non ha forma possibile da descrivere ed è sporco di terra: da quando l’ho trovato non l’ho mai lavato, sto molto attenta a non cancellare i segni di ciò che lo ha reso oggi il pezzo di plastica che è. L’amuleto e la mia personale ossessione nascono insieme, sono uno l’emanazione dell’altra.
Qualche settimana fa vagavo nervosa su una strada affascinante ma sconnessa e stretta – davvero troppo stretta – al volante della mia Smart: cercavo il luogo dell’ossessione, un breve tratto di asfalto che forma una doppia curva appena prima di un ponte su un torrente seminascosto da magnifici alberi che in questo periodo sono un trionfo di foglie e di frusciare al vento. Ero nervosa perché temevo di avere perso di nuovo la strada: in questo viaggio che ho ripetuto spesso esiste un bivio che ancora mi confonde, una volta sono finita in una specie di passo alpino con la strada coperta dal ghiaccio e la neve accumulata ai lati della carreggiata, la Smart non aveva le catene e ho sperato che nessuno mi notasse e decidesse di fermarmi. Un’altra volta ho infilato, non so come, una statale così sconnessa e disastrata da costituire un vero e proprio attentato alla vita di chi volesse avventurarsi: ripetute frane hanno mangiato lunghi monconi e creato dislivelli che sarebbero tuttora incompatibili con la viabilità; ignoro chi abbia deciso di lasciarla aperta ma ricordo che fui sul punto di terrorizzarmi sul serio. Insomma, quel giorno piangevo per la rabbia e tiravo maledizioni a caso convinta di avere sbagliato di nuovo la scelta della strada al bivio che mi mette in crisi. Intenta ad autocommiserarmi, ho frenato di colpo quando mi sono accorta di essere arrivata proprio dove avrei voluto e di averlo fatto senza la minima preparazione psicologica.
Ero sul luogo della mia ossessione e non passava nessuno, gli alberi si chinavano a un vento furibondo e a me non restava altro che decidere cosa fare: proseguire intimidita dai ricordi o fermarmi e immergere la mia anima in tutto ciò che sarebbe accaduto. Uno dei problemi maggiori era trovare un metro quadrato dove fermare la Smart: sapevo che proprio al termine del ponte esisteva l’unica, minuscola rientranza in corrispondenza di un sentiero stretto che solca il costone roccioso e raggiunge un piccolo rifugio. In quel cunicolo improbabile la Smart, docile, si infilò senza un lamento e riuscii a scendere mettendo i piedi obliqui senza guardare giù. Ero arrivata.
Eccomi qui, allora. Siete con me nel luogo della mia ossessione. Immaginate un ponte deserto che non ha altro che asfalto, alberi meravigliosi che si agitano cantando con milioni di foglie nel verde più pieno, il rumore del torrente che tuona sulle rocce. E un guard-rail che costeggia la strada un po’ dappertutto: no, dappertutto no, ne manca un pezzo. Proprio il pezzo che avrebbe potuto evitare che oggi fossi qui in piedi a osservare l’asfalto, e le foglie, e le rocce, e gli alberi, e una lumaca che si è piazzata nel punto esatto di un volo. Ma il volo è un’altra storia, non ne parliamo adesso: ci saranno altre occasioni.
Seguitemi, vedete questi segni per terra? Tanti mesi fa qualcuno ha fatto un disegno, ha identificato il punto dove una moto è caduta. Una moto ritrovata qui da sola, con i colori un po’ da tamarro e pochi segni di quanto le era accaduto. Cammino su e giù, osservo il disegno e mi allontano: vado al pezzo assente di guard-rail, arrivo al margine della roccia, mi metto in piedi in bilico sul precipizio e provo a guardare il torrente; si immagina, si indovina che ci sia ma i rami coperti di foglie portano via la vista. Se qualcuno cadesse qui potremmo solo intuirne la presenza, certo non potremmo vederlo: non di maggio, non di giungo o a luglio. Lo vedremmo solo in un mese invernale quando gli alberi spogli non creano barriere e lasciano che il torrente risplenda di luce ghiacciata. Per sapere che qualcuno è caduto qui dovremmo averlo visto precipitare.
Un’automobile passa, il tizio alla guida rallenta e mi osserva perplesso: gli sorrido, so a cosa sta pensando. Tranquillo, amico, non salterò da qui, non mentre tu stai passando e non hai altro desiderio che allontanarti veloce dalla pazza che si è messa dove nessuno dovrebbe andare. Risponde al sorriso, fa un cenno e intuisco anche questo: “Stia attenta, è un po’ pericoloso lì”. Annuisco, mezzo passo indietro per indicargli che non lo lascerò penare per me. Vai sereno, amico, sono stabile e a piedi: potresti preoccuparti se, per esempio, io fossi su una moto che a un certo punto impazzisce (chissà perché) e mi sbalza dalla sella dove nessuno ha previsto un pezzo di guard-rail. Ma come vedi non lo sono, sono una donna in tuta da ginnastica nera che insegue fantasmi e crea le proprie ossessioni.
Quando ritorno sul ponte mi chino e accarezzo i disegni sbiaditi sull’asfalto. E a questo punto succede: la mia testa va via, non ha più pensieri, la mano si sposta e scava al margine della strada. Non ha motivo razionale per farlo, ma qualcosa la muove. Esiste uno spazio stretto tra l’asfalto e la massicciata del ponte, le mie dita comandate da qualcuno (che non sono io) si mettono a scavare, strappano e aprono varchi. Con le unghie tiro via la terra e i sassi, e strati di materiale amorfo nero che qualcuno ha schiacciato più volte passandoci sopra.
L’ho trovato così. Esattamente tra le due croci disegnate a terra, il pezzo di plastica rossa mi stava aspettando: è un pezzo del fanalino di una moto, è rotto e sporco e ha i segni di quella che – con un italiano approssimativo ma efficace – in Brianza definiamo una “strisciata”.
Il pezzo di un fanalino di una moto. Il pezzo della mia ossessione.
Molti minuti dopo ho camminato fino alla Smart, ho messo in moto e sono ripartita. Ho aperto il tetto per respirare e, mentre piangevo, un ramoscello profumato è caduto da un albero ed è volato molle, dispettoso, amorevole nel mio grembo.
Ora il mio amuleto e io vi salutiamo.
© MariaGiovanna Luini, 2015
A ciascuno le sue. Io non sono ancora riuscita ad andare sul luogo. Non ho frammenti di fanalino o pedale da portare con me come amuleto. La mia ossessione è sempre, quasi sempre, con me. Oggetti, o frammenti… non li voglio troppo vicini. Anche se non sono di vetro, a stringerli fra le dita fanno male, feriscono lo stesso. Un abbraccio e grazie per la condivisione
Che siano lontani o vicini, feriscono. E’ vero. NOn esiste differenza nel volerli toccare oppure no, anzi a pensarci bene una differenza esiste: il dolore che si tenta di scacciare si blocca nel campo energetico e prima o poi crea problemi fisici. se dolore deve essere, che sia vissuto, espresso, fatto volare via.
ieri sera, passando da là, ho trovato un altro pezzo del’amuleto: sembra impossibile eppure è così. un pezzo bello grosso era lì che mi aspettava, e coincide perfettamente con il resto. forse il cuore in frantumi è destinato a ricostruirsi con una forma nuova.