Divina ossessione

La luce della divinità mi distrae. L’ho scongiurata di non accecarmi. Ho bisogno del buio. Ma il suo alone è
troppo luminoso e mi distoglie dalla ricerca del nulla.
L’ho pregata di proteggermi dal suo bagliore: in piedi, in ginocchio, a mani giunte, a braccia aperte. Niente.
Sembra non ascoltarmi.
In verità vorrei rinunciare a queste beghe tra il terreno e il divino. Invece rimango impantanato mani e piedi in quello che dice la divinità. La mia vita è appesa ai suoi oracoli. La sua bocca si distende mentre annuncia l’abbattersi di una tragedia. Sono labbra carnose che anticipano disgrazie, anch’esse luminose, fasci accecanti di luce. Mi colpiscono gli occhi a ogni giro di pupilla. Insieme danzano in un richiamo di velluto, lo stendono sulla mia pelle, lo incollano di desiderio puro.
Non raggiungo la sua crudeltà, quando mi sento trascurato. Anzi corro verso di lei appena sento crollarmi
addosso il mondo, il mondo di cartapesta in cui mi tocca vivere, triste quinta di un teatro in malora, consunto dall’umidità, dalla polvere, dai topi che ne rosicchiano il sipario. Getto alle spalle il pudore, alla
divinità mi presento così come sono, reale come ci insegnano a essere dinnanzi alla supremazia celeste.
Sono pasticciato di estasi e passione, ma non posso spogliarmi come vorrei per via della troppa luce divina.
Mi scuote il ricordo di fragori senza direzione che invadono lo spazio di stanze e corridoi. Lei finge di non
ascoltarmi, rifiutandosi di vedere quel tragico giorno.
Con il tempo il nostro è diventato un appuntamento fisso. Di solito al tramonto. È a quell’ora che riesco a
fiutare la santità nell’aria afosa, quando la disperazione si appiglia al divino. È a quell’ora che disperazione e piacere si alleano per piombare come macigni sul mio corpo, insieme al ricordo di quella tragica giornata. Cerco di spiegarmi la sua assenza nel giorno più violento. Lei, come per scusarsi, si lascia attrarre dalla Terra trasformatasi in calamita, anche lei compendio di disperazione e piacere.
Ce l’hanno sempre insegnato. Insistono sul fatto che dobbiamo presentarci così come siamo al cospetto
della divinità, senza maschere, senza finzioni. Ho imparato a non vergognarmi, a mostrarmi nudo. È un
mare speciale quello che ingigantisce le onde emotive al solo immaginare la divinità distesa al mio fianco.
Non oso voltarmi ad ammirarla. Basta sentire la sua luce pungente sulla pelle. Potrei allungare la mano per palparla. Rimango immobile nello spazio fisico che mi è concesso, attento a non oltrepassare i confini
terreni, a non superare le mie spoglie mortali. La mia è una disperazione che sa di sconfitta. Allora ne
approfitto. Finalmente potrò dirle che mi ha spezzato la vita, che ha svuotato i banchi di scuola, che mi ha
rubato i compagni. La vita, la mia vita, si è fermata a quel giorno, quando i miei amici hanno fatto
indigestione di spari, di urla, di pianti, di corpi disseminati lungo il corridoio come molliche rosse a guidare la morte. Mi sono salvato solo perché ero chiuso in bagno, in preda alla vecchia ossessione, quella di sempre, indicibile, inconfessabile a qualsiasi età. Funzionavo più da automa che da umano, mentre mi toccavo nella penombra della latrina, squarciata quella mattina da bagliori secchi, come fuochi d’artificio a rimbombare nei corridoi e a propagare luce sintetica tra gli interstizi delle porte e poi lezzo di carne bruciata. D’istinto mi buttai a terra, mi raggomitolai come nelle notti più fredde a pregare la divinità perché tutto finisse al più presto.
Il silenzio. Segnali muti di aiuto che lanciavo alla sfera celeste. Li recitavo a bocca chiusa, li trattavo da
ultrasuoni nel tentativo di risvegliare la divinità assopita in quella tragedia.
Tornata la calma, uscii dal bagno e dovetti fronteggiare lo spettacolo di quei frammenti sanguinolenti. Certo che ci sto lavorando, eccome. Anche se sono trascorsi dodici anni. A forza di tornare indietro con la
memoria non so più se vivo il presente o il passato. Eppure, l’ossessione rimane. Non schioda. È quella
morbosità alla quale mi aggrappo per sentirmi vivo, quando il cielo, l’aria, l’ossigeno mi piombano addosso a soffocarmi. In fondo se non fosse per lei, sarei già ridotto in filamenti come i miei compagni.
Decido di stare da solo, immerso nel riflesso dorato della divinità piombata sul mio corpo nudo. È così vicina che intercetto il palpitare della sua essenza. Riproduce i battiti umani. Non oso guardarla, mentre vengo attraversato da un’onda erotica. Smanio dal desiderio di toccarmi, di elevarmi al suo livello. Dimentico la luce, dimentico la penombra del bagno angusto della scuola. Qualcosa però mi blocca, qualcosa di freddo, a dispetto del calore che lei irradia. Voglio sapere la verità. È arrivato il momento. Dov’eri il giorno della strage? Perché non sei intervenuta a evitare il dolore? Che cosa volevi dimostrare ritirandoti dalla vita terrena proprio nel momento del bisogno? Una seconda ondata di eccitazione mi scuote come un ramoscello affacciatosi di recente alla primavera. Ancora quel desiderio di accarezzarmi da solo, immaginando con quale voce la divinità pronuncerà la sua arringa. Ancora quella sensazione di freddo che converge su di me da diverse direzioni.
Non è una voce sola, sono tante voci. La divinità parla attraverso i suoni familiari della classe. Chiudo gli
occhi, mentre mi tocco. È tornata tanta luce, quando la divinità fa il suo ingresso nella mia vita. Le riconosco quelle voci. Le voci dei compagni morti nella strage, disintegratisi troppo in fretta per sperare di liberarsi dei corpi terreni. Sangue e anima sono impastati nell’atmosfera, la divinità li ha assorbiti, li ha respirati più a fondo del pulviscolo di cui si nutre. Quei corpi rivendicano la libertà, spintonano recalcitranti nell’involucro divino e producono suoni familiari che la divinità non riesce a trattenere, deve sputarli per sgravarsi di un peso.

Grida la divinità, grida con mille sfumature, mentre a occhi chiusi continuo a costruirmi il buio completo e mi tocco, mi accarezzo per facilitare la violenza a prendere il volo insieme alla mia ossessione, e il mio corpo con tutti gli altri corpi a volare verso il silenzio. Non ambisco altro che all’assenza di stimoli, a quella sospensione infinita di cui ho letto e ascoltato i racconti di chi voleva convincermi che si può sopravvivere all’orrore. Stasera la divinità è accanto a me per scusarsi dell’assenza, parla con le voci leggere degli studenti e per difendersi dalle accuse, mentre inizia ad accarezzarmi il fianco denudato con polpastrelli caldi di luce. Attende che il tocco soporifero delle sue carezze serrino definitivamente questi occhi consumati e mi trascina lieve per l’avambraccio verso il luogo del non ritorno.

Mi soffia nell’orecchio, sussurra frasi incomprensibili che hanno il suono della classe esplosa. Il caldo di quel tocco diventa miele sul mio fianco e non posso far altro che slittare verso di lei, verso uno scivolo oscuro, dove finalmente troverò il buio necessario, dove l’ossessione, come pure la divinità, mi terranno compagnia in eterno.

©Andrea Mauri

Andrea Mauri vive e lavora a Roma. Collabora come giornalista per quotidiani, riviste ed emittenti radiofoniche, occupandosi di temi legati al sociale, al turismo e al tempo libero.
Dal 1995 lavora in Rai, prima nelle produzioni di Raiuno, Raitre e Rai Educazione e attualmente nell’archivio multimediale dell’azienda.
Pubblica racconti in antologie curate da Nottetempo, 80144 Edizioni, Ensemble Edizioni, Algra Editore, Ellera Edizioni, Fara Editore, Historica Edizioni, Lunanera Edizioni, oltre a blog letterari (Svolgimento, Squadernauti, Words Social Forum) e riviste (Carie).
Nel 2016 pubblica il romanzo d’esordio “mickeymouse03” per Alter Ego Edizioni, primo classificato al premio “Mondoscrittura”, finalista al premio Salvatore Quasimodo e al Festival Rive Gauche di Firenze.
Nel 2017 pubblica con Scatole Parlanti il libro “L’ebreo venuto dalla nebbia. Venezia e Roma: due storie di ghetti”. Nel 2018 pubblica il romanzo “Due secondi di troppo” con Il Seme Bianco, finalista al premio Il Delfino 2018. Nel 2019 pubblica la raccolta di racconti “Contagiati” (Ensemble Edizioni), che da inedita si è già guadagnata il primo posto al Premio Letterario Nazionale Autori Italiani 2017, una menzione di
merito al Premio Gustavo Pece 2017 ed è stata finalista al Premio Quasimodo 2017. Dopo la pubblicazione si è aggiudicata il secondo posto al Premio Nazionale di Letteratura Contemporanea
Italiana e la menzione di merito al premio “La felicità ritrovata”. “Ragazzi chimici – Confessioni di chemsex” è il suo ultimo lavoro, realizzato con Angela Infante e pubblicato da Ensemble Edizioni (2020), finalista al Premio Carver 2022.
“La lezione del Duende” da inedito è primo classificato al premio “La città sul ponte” 2022 e finalista al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Europa in Versi 2022

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