Io che non sono che fuoco

Vi ho visto e vi ho sentito. E di nuovo visto, e sentito. Ancora. Ma della fede di cui cianciavate non c’era nemmeno l’ombra. Anche quelle vostre battaglie contro i demoni non avevano nulla a che vedere con la mia essenza; e sì che mi invocavate. Ero il vostro complice essenziale, responsabile assieme a voi. Qualcuno pensò a me e considerò di farmi diventare l’idea feroce che non ero. Quello che più mi colpiva era con quanta convinzione cieca vi credevate giusti. Tutti quanti, nessuno escluso.

Una specie di ossessione, le streghe, che immaginavate risolvessi al vostro posto. Così mi avete lasciato da portare in braccio i vostri castighi e io, tanto per non sbagliare, ho regalato al vento tutta la polvere che portavo in tasca, ché poi era soltanto il resto dei vostri giorni spesi male. O quello che ne era rimasto. L’ho fatto così, come potrebbe farlo una madre dopo che piange via ogni lacrima che c’è da piangere. In silenzio.

Ma, vedete, io non sono che Fuoco, e la mia natura è scaldare, non certo annientare.

Io, che non sono che Fuoco, mi sono scoperto a ingoiare ciò che di buono ho difeso con la mia frenesia.

Mi sono arreso a sputare fuori quelle gole di fiamma che avete incitato. E alla fine anche la legna di quei roghi mi ha ceduto, accettando la vostra ira alla maniera in cui si accetta l’arrivo di una sventura.

Andò così.

Avevate facce uguali: uomini che odiano in branco, come animali direi, se non sapessi quanto questo sia falso, perché gli animali li conosco bene e loro conoscono me. Abbiamo l’un l’altro quel rispetto antico che ha a che fare con la vita stessa. Non sappiamo come si nasce né come si muore, ma conosciamo bene con quanta facilità questo possa accadere. Di solito ce ne stiamo distanti quanto basta e se ci avviciniamo è solo perché la cosa ci può dare ristoro: loro possono rasserenare le loro fatiche invernali quando si acquietano al calore dei miei focolai, io posso provare a imparare dalla loro trasparenza quel modo di fare quieto che ancora mi sfugge.

Che non ho.

Voialtri uomini no. Voi raramente perdete il vostro tempo solo per il fatto di impararne qualcosa.

In quell’epoca potevate sembrare tutti uguali, dicevo. Con la stessa faccia da giudici anche se facevate solo da pubblico. E, di certo, una cosa tra le altre vi legava: quando arrivavate sotto la pira sapevate già di morte. Stavate gli uni accanto agli altri, immobili, a guardare lo spettacolo feroce di me che lavoravo per voi mentre le mie fiamme vi illuminavano i bagliori dentro gli occhi. Ma la vostra giustizia non era la mia, io questo sapevo, questo insieme a poco altro. Vi ero servo sconfitto, come loro. Quasi come loro. Le donne, dico.

La prima cosa che vedevo arrivare di queste creature era lo sguardo. Quando le portavate da me erano state rasate, spogliate, sfibrate. Avevano già confessato quello che dovevano, cedendo con tortura l’unica parola che volevate uscisse dalle loro bocche. Stregoneria.

Ho vacillato davanti ai loro corpi, nove milioni di corpi. Nove milioni. Se potessi parlare di sentimenti umani direi che provavo paura, sgomento: alcune non erano che bambine. Sapevo dall’inizio che mi sarebbe toccato reggerle in braccio fin oltre la loro stessa fine. Stringerle mentre prendevano il volo per chissà dove, a galleggiare nell’aria, in eterno. Con una leggerezza che voi non avevate, che non avrete mai.

Non so dire quanto tempo ho passato per condurre quei corpi dalle mie braccia fino a quelle del vento giusto per farli soffiare via da quell’orrore. Però, se non questo, so dire altro: ho imparato a raccontare della loro giovinezza, dei loro occhi che rimanevano vivi fino alla fine. So dirvi con la certezza di chi c’è stato che ̶ ogni volta e per ognuna di loro ̶ avevo imparato a creare colori diversi, perché diverse erano loro. No, non diverse nella bellezza, non fraintendetemi, queste sono cose da uomini, non certo da me. Erano diverse per le cose che mi lasciavano perché, piaccia o no, io ero l’ultimo che incontravano quaggiù e per questo motivo forse qualcuna mi avrebbe ringraziato per averla liberata dalle vostre mani.

Ma troppe mi avrebbero ricordato come il loro carnefice e io, questa cosa qui, ecco: non la potevo sopportare. Allora ho deciso: avrei potuto regalare qualcosa di mio. È lì che mi è venuta in mente quell’idea bizzarra dei colori. Lo so, pensate sia un regalo miserabile, un pensiero da nulla. Ma provate a immaginare di me i migliaia di toni, o le sfumature, tutte quelle che avevo già sommate a quelle che cercavo di inventarmi.

Un colore per ogni rogo.

E lo facevo come potevo, certo. A volte cercando la forza per bruciare veloce perché nel loro sguardo avevo visto la rabbia degli ultimi o, forse, quella pretesa di continuare a reclamare per sé la ragione.  Allora assumevo le sembianze del rosso, del giallo vivo e mi confondevo tra le loro vesti, urlavo con loro la mia collera. Altre volte, invece, mi fermavo lento sulla loro pelle, centimetro per centimetro, e le accompagnavo dentro il loro viaggio silenzioso di sconfitta. In quel momento prendevo le forme del blu e accendevo solo un lumino sterile di rosso scuro, un frammento di calore quasi spento. Restando in silenzio, non fosse per qualche crepitio di ramo che cedeva alla mia brace. Perché dentro i loro occhi avevo visto la rassegnazione, la mia e quella del mondo intero. Così i colori che fabbricavo non sapevano essere che quelli della rinuncia.

Qualcuno pregava, ma non ero io, non sono buono per queste cose.

Altri se ne stavano lontani per non sentire l’odore acre che non potevo far a meno di spandere, ma erano pochi. Io, intanto, potevo solo augurarmi che in qualche strano posto, magari mescolato col vento, ci fosse una specie di Dio ad aspettarle, o se non lui almeno qualcuno migliore, più forte di me. O più forte di loro, perché per quanto io mi sia fermato a cercare una spiegazione e capire il perché di quel tempo atroce, solo questo mi sono saputo rispondere: le donne vi facevano paura.

Per quella loro minaccia di essere tali, per il loro potere di trovare rimedi nelle erbe e nelle carezze; nella follia che le faceva amare farneticanti. Per la fierezza dignitosa, mai violenta. Per la stanchezza che sapevano ignorare. Per il sangue che versavano, per il sangue che non facevano versare. E per la loro libertà assoluta di spose, madri, nubili, vedove e vergini, una libertà totale che scorreva nelle loro vene e non si fermava mai. Che non si può fermare. Senza tregua. E questo voi lo sapevate.

Mi ci vorrà ancora del tempo per ripulirmi, per prendere le distanze da quel compito ingrato, ma di tempo ne ho. Mi piacerebbe che loro potessero ancora essere sparse a galleggiare nel vento, dove le ho lasciate in cura, e che sapessero che ho perso tutti quei colori, nel frattempo. Che non li invento più per nessuno. E, anche, che non ho mai più dimenticato i loro sguardi: me li porto in braccio, uno per uno, diversi per come erano.

Da allora ho avuto altri morti addosso ma, di contro, ho scaldato anche altre mille vite, e mille ancora ne scalderò. “Ho fatto anche cose buone”, penso, come fanno i vecchi quando si guardano indietro e delle cose sbagliate non possono cambiare un granché. Allora si fanno bastare ciò che hanno e lo custodiscono con la cura che si riserva alle carezze da dare ai bambini. Questo so dire di me, oggi. Questo dirò, se la vita vorrà, senza più paura. Perché ho rubato e messo da parte tanta di quella loro forza che potrei narrare la vera storia che ci ha tenuto legati assieme – il Fuoco e le streghe – ogni volta che potrà servirne a qualcuno.

Per ogni nuova volta che potrà riuscire a salvarci da qualcosa.

©Katia Colica, 2018

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