Lì dove esiste mio padre

paesaggio vuoto

Lena si è alzata da terra spolverandosi i jeans. Ha lasciato scivolare il suo pollice sul palmare con un gesto secco. Pronto, ha detto un paio di volte a qualcuno prima di sollevarsi da questa riva e spostarsi verso la strada. Non prende, in questo posto nel culo del mondo!ha urlato, più a me che al suo interlocutore telefonico. Mi sta dicendo che sono sbagliato, io e tutto questo che ho attorno. Che sono vecchio, superato con le mie speranze fatte di odori, di suoni. Mi sta dicendo che la vita è veloce e se continuo così rimarrò indietro. Ma forse sono già indietro. Vai pure le dico, ma non sente già più.
Abbiamo discusso di nuovo, un’ora abbondante. È una cazzata, ha continuato a dirmi guardando nostro padre, è una cazzataÈ una vera, immensa cazzata.Per fortuna lui non ci sente, e se ci sente è distratto da cose più importanti di noi, così importanti che lo hanno trasferito in blocco dentro una dimensione che non è più la sua, o la nostra. Provate a riportarlo tra le sue cose, ci ha detto un medico di nemmeno trent’anni, bianco in faccia come i suoi malati. Ne abbiamo sentiti di dottori, ma alla fine lui è stato l’unico che ci ha voluto provare; in un modo strano, certo. Ci ha consigliato una cura che ha a che fare coi luoghi. Da questa malattia non si guarisce, ha detto chiaro, ma almeno potrebbe star meglio mentre perde lentamente la coscienza dei suoi ricordi. E la deposita in qualche posto della sua mente conosciuto. Un posto solo suo. Solo suo.
Lena dice che no, che stiamo perdendo tempo a rimanere immobili su questa riva. A sperare in un medico più scemo degli altri. A guardar agitare le acque dello Ionio così, come fossero le stesse ore disperate di papà. Senza tregua. Io non ce la faccio a rimanere, resta tu, mi dice. Resta tu che sei migliore. Ma io non sono migliore. Forse questo posto lo è, non certo io.
Papà si alza a fatica, adesso, mi guarda ancora senza riconoscermi. Forse si chiede cosa voglia da lui questo sconosciuto che lo aiuta a sollevarsi agganciandolo da un braccio come fosse un bambino malato. Mi scosta. Adesso mi urla qualcosa. Ha una lacrima sotto un occhio, seccata dal vento e trasformata in un granello di sale rappreso. Lena è già lontana, mi sento perso mentre la vedo in miniatura: si arrampica sulla sabbia che ingoia le sue scarpe da tennis e sale verso la strada a poche decine di metri da qui, dove abbiamo parcheggiato; non vuole nemmeno tentare. Non ne può davvero più. Io invece ci riprovo anche oggi.
Guardapapà. Gli indico col dito il ponte sulla fiumara asciutta che, vorrei, adesso sostenesse anche me assieme a tutto il resto. E guarda anche lì in alto, dico spostando il dito. Lui segue la mia mano con lo sguardo, adesso si fida, fa sì con la testa. Sta per piovere, ci vorrebbe un ombrello, vero papà? Ora chiude gli occhi, mio padre, e respira. C’è la pioggia che comincia a cadere e lui sembra voler aspirare tutto questo odore che si sviluppa nel momento esatto in cui le gocce toccano terra. Un miracolo conosciuto che gli penetra le narici con prepotenza; sembra volerlo trattenere a forza, non buttarlo mai fuori dai suoi polmoni. Lo riconosce come un segno scritto, come se sentisse l’anima di questo paesaggio tornargli dentro, lì, dove la sua vita ancora non è immobile. Dove la morte è andata a farsi un giro solo per il tempo di un caffè mentre glielo tengo in custodia. Io, che ancora non mi arrendo a lasciarglielo prendere in braccio. Io, che se non faccio attenzione me lo ruba per portarlo chissà dove. Papà, dimmi che esisti almeno qui.
Lui intanto annaspa muto. Adesso apre gli occhi e guarda in alto, sembra voler ingoiare con lo sguardo i colori del cielo che quasi si confondono a quelli grigi della riva. Il vento si è alzato ora, il suo suono mi inquieta. Invece lui no, mio padre ascolta attento girando di scatto la testa, come un animale che sente un fischio in lontananza. Ha sollevato lentamente la mano destra: il palmo verticale come a tagliare a metà l’aria; una barriera di carne e calli che vuole toccare la musica del vento, che ne modula i suoni col lento aprire e chiudere le dita. Sembrerebbe stia suonando, quasi. Lo sento anche io il ripetersi di queste note, adesso. E non ho più paura. La vita è stata feroce con te, padre, e tu adesso l’accarezzi.
Sei tornato a sederti a terra in questa riva adesso fangosa, come qualcuno che rientra di prepotenza nelle viscere da cui è stato partorito. Come un figlio che cerca riparo sotto i seni ingombranti e pendenti della madre; dentro una logica bambina, fatta di un misto tra sopravvivenza e fortuna.
È la tua casa questa, è giusto così. Ora lo so: non ci si libera facilmente dei nostri luoghi, e se ci si allontana – come è stato per te, padre – di questi tradimenti alla Calabria, vedi, non importa. Non se ne fa un granché, lo Stretto, del rancore. Questo io ho imparato oggi. Sapessi quanto vorrei somigliargli, papà, a questo posto. Invece sono solo un ladro che riporta indietro la refurtiva.
Un fulmine squarcia il cielo, tu sorridi. Ti porgo la mano e me la stringi mentre ti sollevo con la mia scarsa forza di figlio. Si è fatto tardi, ma torneremo. Intanto registra tutta la musica che questo posto può fare e rigirala dentro la tua testa, non lasciarla nemmeno per un attimo. Ingabbia la cupezza ripetuta di questo lento scorrere d’acqua, metti in tasca l’eco del vento che alza la sabbia e la frusta sul viso. Odorati senza sosta queste mani di uva, e terra, e fango, e sudore. Conserva questa serenità che ti ha attraversato così, come si può. Domani torneremo e mi insegnerai come oggi – senza parlare – quanto vale la traccia feroce di una terra che ti scorre addosso per una vita intera. Domani torneremo e, vedrai, il mare stavolta non ti lascerà andare via così facilmente.

© Katia Colica, 2018

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