La giostra sul marciapiede

© foto di K. Colica
© foto di K. Colica

LA GIOSTRA SUL MARCIAPIEDE

Guardami. Guardami ancora ho detto. Non abbassare gli occhi, vedi? Io non li abbasso. Pozzanghera maledetta, maledetta come questa terra, maledetta come questa città bastarda e mai vista per intero, come questo angolo di marciapiede maledetto. La gonna è un disastro adesso, come la mia vita del resto. Ma tant’è.
Ehi tu, tu dico, guardami.
Cosa fai adesso, abbassi lo sguardo? Prima però mi fissavi; prima, quando osservavo la punta dei miei stivali per non affogare dentro il bianco acquoso dei tuoi occhi. Ora, invece, hai paura di sporcarti con la mia vita imbrattata, o di una malattia che potrei attaccarti con la mia bocca, con le mie mani, con la mia anima in degenza. E così adesso credi che correre via ti salverà. Beh, ti do una notizia: guardandomi mi hai già stuprato, ancora più di quelli che pagano per farlo; almeno loro sanno scegliere, tu sai solo cedere.
E invece tu, donnina viscosa, sbarrata nel tuo cappotto, scarpe mezzotacco quadrato, borsetta marrone lucida appesa al polso aguzzo, ma cosa borbotti. Nella tua lingua saranno insulti: non ho bisogno di studiarla per capirlo. Non ne ho bisogno perché le parole, anche se sputate fuori a fatica, prendono forme strane; viaggiano dentro gli occhi e li accompagnano per mano verso la schiettezza. Così ogni lettera pronunciata, ogni parola, ormai so riconoscerla dalla paura che può fare. Che mi fai.
Io sono la giostra sul marciapiede, sono l’oggetto perfetto.
E dentro quest’angolo di città, nel reticolo di questa gabbia invisibile, aspetto il corteo degli uomini che mi compra a turno. Io sono nata mille volte, una per ogni volta che qui dentro ci ritorno. E per ogni nuova volta sarò curiosa di immaginare tutte le altre volte che saprò ritornarci; da viva. E un po’ come una scommessa tra derelitti e la vittoria è l’aria che respiro giocherellando con il puzzo del gas di scarico della macchina che mi riporta qui. Questo angolo di città io lo uso come una dimora, lo abito con la stessa apprensione che ha una donna qualunque di rovinare il pavimento di casa sua, coi tacchi, a strisciare. Con la stessa cura lo lucido con le mie lacrime fino a consumarlo, e mi piace vagheggiarlo cosa viva. Non ho altro che questo. Eppure lo odio, visceralmente. Lo odio assieme al palazzo grigio dirimpetto e i suoi manifesti mangiati a morsi dal vento. E a quella signora che, da quando sono qui, accosta i battenti alle finestre spingendo via il suo bambino. Ma spingendolo piano, stancamente. Quasi per non fargli ancora male, oltre a quello che gli faccio io, esposta qui, a infettargli l’innocenza.
E lo odio assieme al latrare del cane serrato in quel balcone, col suo pianto modulato dai rantoli mentre l’inverno ci punge la pelle e la pioggia ci stringe, nello stesso attimo, addosso ai nostri muri; per inseguire il riparo dei parapetti troppo stretti e gocciolanti. Tuttavia non vedo l’ora di tornarci qui dentro, come una tigre dentro la sua gabbia dopo il numero del cerchio infuocato, sotto il tendone del circo. E che sperpera ingenuamente il suo coraggio per poi ritrovarsene una fetta di meno per ogni giorno che è passato.
Ma qui dentro il codazzo di uomini non ci entra, non potrebbe entrarci neanche volendo. Loro restano fuori, al sicuro, e io ho imparato presto a capire i loro cenni quando mi vogliono. Ho imparato a dire sì senza parlare, ad avvicinarmi, a salire sulle loro macchine. Ho imparato a vivere per tutto questo senza – comunque – vivere.
Che fatica truccarmi per loro, pettinarmi. Che fatica la plastica dei sedili attaccata alla pelle, le loro mani attorno al collo. E lì ci vado piano, fuori dal mio cerchio, intendo; parlo a malapena o sto zitta per non sbagliare a dire. Così, per non fare rumore, metto i pensieri in fila, facendoli camminare quasi sulle punte, come si fa nei cessi pubblici, quando il piscio misto all’acqua di scarico allaga il pavimento.
Perché l’ho capito bambina: non merito baci dagli uomini. Merito graffi, sputi. Un cucchiaio di sperma, uno di latte caldo. Un insulto becero e un pezzo di pane. Non mendico amore: so di non valerne, il mio imene si è lacerato combattendo coi lupi. Sono erotica fin da piccola e sono stata assunta a pochi anni: un contratto a tempo indeterminato per un posto da bambola viva. E quando sono qui ferma, immobile, sposto soltanto le guance agli schiaffi del vento che mi strattona e non mi bacia in viso, come tutti gli uomini che ho avuto, d’altronde.
Conosco le carezze dell’amore per sentito dire, gli uomini lo sanno e non mi amano mai, distraendomi dall’idea di pretenderlo. E io divento – come in una sorta miracolo – la pietà di tutte le donne che lasciano fare: in fondo sono solo degli uomini, soldi contati e amore feroce. E li vedi arrivare come bambini corrotti, implorando la nostra assenza come fosse una cortesia della vita. Si accontentano di poco e non lo sanno. E allora stiamo qui, ad abitarlo tutti assieme questo circo: noi a fabbricare sogni, loro a spianarceli.
Ma ogni volta – ogni volta – che ci lasciano lo spazio, anche piccolo, ritagliato, impercettibile per pensare, è una specie di trasloco.
Ecco: la paura si avvicina. La macchina è qui immobile da troppo tempo, lui ha gli occhi bassi ma ha aperto lo sportello stirandosi lungo i sedili, ora è il mio turno. Ce la metterò tutta per essere più veloce, più veloce delle sue mani, dei suoi insulti, perfino più veloce della somma di tutte le mie angosce. Adesso copro quest’angolo di marciapiede con un immaginario telo bianco, come si fa coi mobili per proteggerli dalla polvere. E ci tornerò, mezz’ora giuro, ci tornerò in quest’angolo maledetto, maledetto come questa terra, come questa città bastarda e mai vista per intero, come la mia vita maledetta. Salirò in macchina e mentre ci allontaneremo mi volterò a guardarlo per marcare la sua immagine negli occhi e questo mi aiuterà, ma certo, mi salverà.
Mezz’ora. Non è tanto mezz’ora. Mi aspetterà anche stavolta.

© Katia Colica, 2016

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