Dio dai mille colori

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DIO DEI MILLE COLORI

«Ti ricordi di me? Sono quello di ieri. Sono quello di sempre».

Lo chiamano Peppe, non so nemmeno il perché; non so nemmeno il suo vero nome che tanto – a saperlo – sbaglierei a pronunciare. In città fa quel che può: vende accendini ai semafori, scarica pesce al porto, organizza traslochi con qualche “cugino” italiano che ha l’Ape 50. Sta a disposizione di certi supermercati per portare a casa le buste della spesa alle signore.
Ha spalle forti Peppe. Ma soprattutto: sorride.

Vuole dire a tutti qualcosa oggi, a tutti quelli che passano dall’angolo della strada parallela al mare dove spesso si ferma ad aspettare qualcuno che gli offra da scaricare della roba. Aspetta da quindici anni e da quindici anni, prima o poi, c’è sempre uno che arriva, che ha bisogno di lui o di sua moglie Fatima che cucina cuscus e cambia i pannoloni; che cucina cuscus e tira le notti al posto dei figli lontani di quei vecchi silenziosi che, nel buio, culla come bambini.
Peppe sorride, Fatima canta. Hanno cresciuto tre figli così, in questa terra di sale e di mare.

«Allah, Dio, Gesù: tutti uguali. Nero bianco rosso giallo: tutto amore, un solo amore grandissimo», mi dice. Lo dice a chiunque oggi. E fa un gesto con le braccia larghe a rafforzare la sua idea.

Qualcuno gli fa un cenno d’assenso con la testa: ma certo, sì. Tutti uguali questi dio, sicuramente. Anche io gli rispondo: non ne capisco un granché di queste faccende ma se ci sta qualcuno lassù, gli dico, sarà sicuramente come l’idea di questo suo strambo dio dai mille colori.

Peppe sa dei dolori sparsi tra le terre del mondo, legge in quattro lingue diverse tutti gli articoli che gli capitano a tiro e mi racconta spesso del sangue che ha visto; o che gli riporta come in una cronaca di lutto la vecchia madre per telefono, fin dalla sua terra lontana e in guerra. Gli piace parlare e a me piace ascoltare. Però sa anche che la gente è strana e può cambiare rapidamente idea sugli stranieri se la paura li confonde e mescola le cose.  Così  cerca il modo per recuperare tutta la fiducia accumulata e metterla in un angolo al sicuro se mai a qualcuno possa venire in mente di depredarla da un momento all’altro come a rubamazzetto.  Per questo ne parla di continuo, adesso, di questa storia del dio unico che non vuole vedere piangere i suoi figli pensa –  tu pensa – se li vuole vedere farsi esplodere.

«Ho un fratello in Francia – mi confessa sottovoce – fa il cameriere. E il suo padrone proprio oggi ha detto ʽnon c’è problemaʼ, lo tiene a lavorare; non lo manderà via». Aggiunge un ringraziamento al suo dio con un rituale veloce fatto di mani giunte e ripetuti inchini. Allora me lo immagino come lui, per un momento, questo dio dei mille colori che da qualche parte lassù pensa un po’ a Peppe, un po’ a suo fratello, uno sguardo a sua madre al centro esatto della guerra. E che poi però sposta il pensiero anche un po’ ai neri del mondo, ai rossi, ai gialli, ai magrebini, ai lapponi, agli ebrei  e forse va a finire che in questa confusione pensa pure a me. A me che non gli do fede, che non lo faccio capace nemmeno di esistere come movente di un attentato. E che però ci credo ancora che si può vivere così. Con l’idea, vaga e indistinta, di lui che se ne sta lì: pitturato con tutti i colori possibili dal credo bizzarro dei giusti.

© Katia Colica, 2015

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