Con possibilità di crescita

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foto di Katia Colica

CON POSSIBILITÀ DI CRESCITA

Se aspetto alzata do l’impressione di essere in preda all’ansia. Se sto seduta, qui, come gli altri, forse sembrerò tranquilla. Professionale. Adatta. Adatta a fare cosa, poi. L’annuncio di lavoro non era per nulla chiaro, come al solito. Azienda leader nel settore cerca ambosessi per attività commerciale, non è necessaria alcuna esperienza ma solo la disponibilità a imparare. Richiedesi buona conoscenza della lingua italiana, predisposizione a lavorare per turni. Offresi guadagno assicurato e possibilità di crescita.

Io, però, di crescere mi sono stancata, sono decine di anni che cresco.

Al liceo, per esempio, già lì dovevo crescere in fretta rispetto ai compagni di scuola. Ché soldi per i libri di testo non ce n’erano. È un tuo diritto sapere cosa studiare, mi gridava papà, ed è un tuo diritto studiare in qualsiasi testo abbiamo in casa; quindi alzati in piedi e pretendi di sapere gli argomenti, non l’indicazione del numero delle pagine. Io, per la verità, ancora non lo sapevo se era davvero un mio diritto, quello che già sapevo  – e anche bene – è che mi costava alzare la mano e chiedere, pretendere, lottare. Sapevo che mi costava espormi, combattere, crescere e crescere, senza sosta.

Avevo quindici anni e io volevo vivere, mica crescere.

Quindi non crescevo spesso o, spesso, crescevo male. Poi l’università, le tasse, gli esami, il master, le stanze in affitto. Devi essere più forte degli altri, più matura; e crescere. Crescere quando alle feste degli universitari invece di ubriacarti sei quella che l’alcol lo serve ai tavoli, crescere quando ascolti i concerti da fuori i cancelli perché non hai certo da spendere i tuoi soldi lavorati per uno stupido biglietto, crescere quando al sonno perso di notte sui libri sommi quell’altro perso dentro i pub a prendere ordinazioni di birre e patatine fritte per turni di dieci ore che ti rimandavano a letto alle quattro del mattino e trentamila lire in tasca. Crescere e inorgoglirsi, ma certo, quando i tuoi titoli e le tue esperienze valgono il doppio perché è il doppio che li hai sudati. È qui che cresci, dentro tutto questo, diceva mio padre.

Ma il problema è che intanto sono cresciuta davvero, ma cresciuta d’età. E a quarant’anni sento che sto morendo ogni giorno di più dentro questo presente infinito, mentre il futuro è rimasta la stessa poltiglia limitata e malconcia. Faccio progetti per sopravvivere e mai per riprendere fiato. So come si fa tutto perché di tutto ho fatto. So stare zitta e parlare brillantemente, so essere sciolta e disinvolta come taciturna e discreta, so ingoiare rimproveri davanti alla gente e pacche sulle spalle condite di nulla. So gestire contratti a progetto come so ignorare toccate di culo fugaci. So dormire tre ore per notte e so macinare chilometri con un chilo e mezzo di volantini in braccio, che dopo un’ora sembrano tre chili. E dopo due ore sembrano sei.

Se serve so sbagliare i congiuntivi, sbagliare il calcolo delle ore in più di straordinario, sbagliare la somma dei soldi in busta paga facendo finta di non capire che non coincide con quello realmente lavorato. Se serve so sbagliare anche a capire mentre i capi del personale mi chiedono se ho figli, se voglio figli.

So sorridere.

Allora mi preparo, adesso, su questa sedia, attenta a non incrociare gli altri negli occhi, che qui dentro nessuno si vuole guardare, nessuno si vuol far riconoscere da nessuno. Stiamo tutti dentro a questo recinto immaginario da dove ognuno vorrebbe scappare e invece resta. Ognuno col suo tailleur, la sua giacca e cravatta, il suo profumo discreto. Ognuno con la voglia di sparire, di essere lontano, non importa dove, lontano, senza questi volti degli sfigati che abbiamo di fronte e che riflettono noi stessi come in uno specchio spietato. Di giovani non più giovani che tengono appesa nel salotto della casa di mamma la pergamena di laurea e con in tasca il disegno storico del fallimento totale, impietoso.

Senza soluzione.

Perché, vedi papà, non è vero che importa come si è cresciuti, qual è stato il percorso, non importa chi tra di noi a vent’anni ha servito ai tavoli e chi si è fatto servire.

Non importa chi al liceo ha studiato su testi nuovi, comprati in libreria, immacolati e subito foderati. Chi ha recuperato il libro di letteratura dal cugino più grande. O chi lo ha comprato a metà prezzo nel mercatino abusivo davanti alla scuola coi soldi che servivano per comprare le scarpe al fratellino minore e però in compenso, poi insieme al libro, si è portato a casa anche gli appunti preziosi, quelli già scritti, con una cura minuziosa sugli spazi bianchi, dalle grafie minuscole. E insieme a quelli i disegni dei cuori con dentro nomi di sconosciuti con la freccia a punta aguzza per farli sanguinare. Roberta e Simone. Chi cazzo sono stati Roberta e Simone, quanto si sono amati per doverlo a tutti i costi raccontare a Dante e dove sono adesso, forse sono proprio qui dentro questa stanza assieme a me e il loro cuore continua a gocciolare sangue dalla freccia; non ha smesso mai.

Perché vedi, papà, quello che importa davvero adesso è quest’aria pesante, rivoltante, un’aria che sono stanca di respirare e che mescola questa sfida tra perdenti e tra perduti in una guerra che non abbiamo voluto noi, qui, a combatterci contro. Quello che importa è che, in fondo, dentro questa stanza nessuno ha una storia uguale all’altra e allora se questo è vero ci si chiede com’è, insomma, come è successo che però ci si ritrova tutti con la stessa identica sorte.

Così mi preparo a farmi volere dal selezionatore, in un modo o nell’altro, ancora, mi preparo a essere – anzi – a sembrare migliore di tutti, a dire che sono disposta a viaggiare, a lavorare per turni, a essere competitiva; mi preparo a raccontate che sono disposta a crescere mentre in realtà vorrei tornare dentro un’infanzia leggera che non ho avuto. E immaginarmi rannicchiata su me stessa, come al riparo della stessa vita, a spegnere i pensieri, le considerazioni. Senza combattere, senza lottare finalmente.

Magari con qualcuno, uno qualunque, che mi stia lì accanto solo per esserci, che sta lì per una ragione tutta sua che non gli domanderei, che non mi interesserebbe. Uno di quelli che vedi nei film – tutti ne abbiamo visto uno così – di quelli che ti danno una sola carezza, esatta, una carezza che parte dai capelli e scende lungo l’orecchio per fermarsi così, a mezz’aria con la mano sospesa a non continuare. Uno di quelli che poi va a finire che ti dice riposa, ci sono io, oppure una cosa così, insomma.

E lì mi fermerei, immobile, a non crescere, perché non avrei nulla di più bello da fare.

©Katia Colica, 2015

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