Il regno del talento

Dio, quant’è bella!
L’ho sempre saputo, anche quando aveva dieci anni, e portava negli occhi questa promessa di eterna perfezione, ma in modo inconsapevole, senza pretese e presunzione. L’ho vista per la prima volta, proprio qui vicino, oltre venti anni fa, eravamo una banda di ragazzini sfrenati e l’estate sembrava infinita. Ma, a dieci anni, ogni estate è infinita.
Eccomi ora, in un tempo del calendario, simile a quello, solo per convenzione, ad arrancare sotto un sole spietato. Ma perché fa questo caldo e perché non ho più la spensierata sfrontatezza di un bambino che affonda in tre mesi di vacanza?
Forse perché lavoro come un matto, perché dicono che sia bravo a “catturare l’attimo”. Che frase cretina, quando socchiudo un occhio, metto a fuoco, apro il diaframma quanto mi serve, sto parlando di un racconto senza fine, non di un istante da acchiappare.
Per esempio, ora, che guardo Nadia, dietro la mia speciale tuta coi superpoteri, non vedo solo la sua figura in armonia con quello che la circonda, vedo le gare in bici, la pizza calda al sabato sera in centro, tutti i miei tentativi di starle accanto da amico. Ma vedo anche quello che sarà, perché, se, senza macchina fotografica, sono un banale ultratrentenne stempiato e impacciato, diabetico da quando ne ho tredici, dietro l’obiettivo, succede la magia.
Adesso, mentre Nadia guarda, languida, suo marito, la scorgo tra tre anni, allorché, per l’ennesima volta, starà traslocando e ritroverà, in una scatola in cantina, la bozza del suo romanzo e sorriderà indulgente, come di fronte ad un ricordo infantile. Anche se ha scelto un lavoro prestigioso che soddisfa pragmatismo e ambizione, lei, da sempre, scrive, come io fotografo. Entrambi, nel farlo,ci trasformiamo.
Ho letto, fin da quando Nadia era una ragazzina piena di storie favolose, i suoi racconti con guerrieri in pigiama fucsia e rane regine, anzi per essere precisi, ero il suo unico lettore, non voleva in nessun modo che qualcuno entrasse nel “regno del suo talento”.
Ce lo aveva insegnato una maestra bizzarra che aveva supplito quattro mesi in quinta elementare e che ci diede un tema fuori da ogni consuetudine didattica: “Immagina di essere a capo di un regno che rispecchia completamente il tuo talento più autentico e che tutti vivano felici finché lo esprimi”. Restai come un allocco per oltre mezz’ora e, alla fine, consegnai una paginetta striminzita, in cui parlai di un luogo dove passavo il tempo a pescare balene.
Nadia, invece, concentrata e infaticabile, scrisse tre pagine fitte, in cui disse che sarebbe stata la signora del regno delle Parole che salvano.
La maestra stralunata, qualche giorno dopo, mi spostò nel posto vicino la finestra.La nostra classe era al terzo piano, vedevo il mare, la città specchio che certi giorni ti rimanda anche le boccacce che le fai, l’angolo chiuso dalla montagna di lava. Guardai sbalordito l’insegnante, mi avevano sempre tenuto al primo banco, perché ero distratto e potevo fissare una macchia sul muro tutta la mattina, immaginando forme stravaganti. Lei disse semplicemente “è quello il regno del tuo talento”.
Io dovevo guardare e cercare la luce giusta, Nadia doveva intrecciare parole.
Ma, poi, ho imparato, senza maestre eccentriche e sovversive che esiste, ben oltre il talento, la missione e se io sono rimasto qui, sempre di fronte a questo mare, alla città gemella, alla montagna che chiude l’angolo, Nadia è partita a conseguire successi, parlare altre lingue, comandare altri regni, con responsabilità ben più grandi della sintassi.
Quando mi rivedeva e mi abbracciava con lo stesso calore della ragazzina cantastorie, mentre il mio cuore perdeva un battito e la mia glicemia precipitava, lei mi diceva che c’era un romanzo che l’aspettava, la storia di una bambina e un bambino che univano due regni e due talenti.
Le sorridevo e le sussurravo. “Nadia, la missione non sempre corrisponde al talento. Questa era un’altra lezione, ma la maestra supplente, dalle calze colorate, se n’è andata prima di spiegarcelo”. Lei scuoteva la testa e mi diceva solo: “Vedrai, vedrai…”.
Ora vedo, Nadia del mio cuore, oltre la tua bellezza abbacinante di bianco solenne, tu che vai verso la vita che ti aspetta, un regno, dove non servono troppe parole e dove si catturano gli istanti ad occhi aperti e senza superpoteri.

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