Sono una professoressa di storia dell’arte alle medie, ho i capelli corti, non soffro di vertigini e nel tempo libero faccio pole dance, anche se non mi piace dirlo in giro. Si sa poco di me e ciò che manca la gente se lo inventa. Tipo che mio marito mi ha lasciata per una cassiera venticinquenne. Sbagliato! Ci siamo lasciati – è vero – e ora lui sta con una ragazza che potrebbe essere sua figlia e un pezzo, ma è successo dopo di me e non m’importa ciò che è successo dopo. Per la cronaca non sono felici, ma forse qui sono io a inventare ciò che manca. Sono la figlia di un pittore famoso, molto famoso. Per difendermi dalla sua fama ho cambiato il suo cognome con quello di mia madre. Ciò non ha fatto di me una pittrice migliore. Avrei voluto essere come lui, ma il talento non si eredita, non nel mio caso almeno. Lui si aspettava grandi risultati, così come il mondo intero. Lui un genio, io una schiappa. E i geni sono pessimi maestri: non sanno spiegare ciò che viene dall’istinto, ciò che per loro è automatismo, creatività innata. Per questo ho scelto di fare l’insegnante, perché ciò che ho imparato è stata tutta fatica mia. Ne conosco la costruzione, perché ogni mattone l’ho trasportato da sola. Ecco perché il mio lavoro mi rende felice. Visto da fuori sgolarsi davanti a frotte di adolescenti abulici, zuppi di ormoni, con la sudorazione di un caprone di montagna, cercando di convincerli che senza Giotto non ci sarebbero stati né Masaccio, né Piero della Francesca, può non sembrare l’attività più soddisfacente al mondo. Ma il punto non è la rivoluzione della prospettiva nell’arte rinascimentale – che di per sé fu come la scoperta dell’energia nucleare – ma il fatto che di tanto in tanto, in tutto quell’urlare, tornare a casa coperta di tempera acrilica e sembrare un Pollock mio malgrado, qualcuno emerga dall’apatia, rapito da tanta bellezza e cambi il senso della sua vita. Non voglio dire che tutti debbano diventare artisti, poeti o musicisti, non è questo il mio intento. Desidero solo che questi ragazzi, qualsiasi cosa diventeranno, lo diventino con passione, dando un senso alla fatica e sapendo riconoscere anche nei momenti più oscuri l’immenso valore di ciò che è bello e per cui vale la pena vivere. Solo questo io insegno.
Sono un centurione romano e sono stanco. Sono passate venti primavere da quando sono diventato legionario: allora ero un giovine di diciassette anni, forte e imbattibile. Ora sono un vecchio con il mal di denti. Posso ancora combattere, ancora uccido e non perdono, ma sono stanco di camminare. Tutte le mie forze se ne vanno lungo il cammino, nelle fiacche dei piedi, nelle ginocchia malconce, nella schiena stanca di portare il peso dell’elmo, del gladio e dello scudo. Per Cesare ho camminato fin qui in Britannia, ho sofferto le onde lunghe del mare, il fetore delle stive, l’umido di queste brughiere. Non mi spaventa il nemico, temo solo di morire lontano da casa mia. Resto di sentinella ogni notte, per via del dente che mi dà noia. Vegliare non mi pesa, tanto non dormirei lo stesso, per il male che mi martella la guancia e mi ricorda che il mio tempo è vicino alla fine. Sto con i miei pensieri e la mia pena. Combatto la battaglia contro me stesso, ma voglio riportare il mio dente a Roma, perché ho visto come il chirurgo estrae i denti qui, con tenaglie che temo di più della lama avversaria. A casa mi farò mettere un dente d’avorio, così da poter masticare ancora cibo solido e mantenermi in forze per un altro po’. Le donne dicono che per allontanare il mal di denti bisogna trovare una rana al chiaro di luna e chiederle la guarigione, ma qui di rane non ce ne sono, nonostante io le abbia cercate ogni notte. Ci sono i gufi, quelli sì, ma non credo facciano lo stesso effetto. L’amico Clarenzio, con cui ci siamo cuciti l’un l’altro più di una ferita, mi ha preparato un decotto di verbena in vino e aceto, che attenua il male, per pochi preziosi momenti. Mi ha detto che appena ne trova mi farà inalare i vapori dei semi del giusquiamo e mi spalmerà un unguento a base di cenere di testa di lupo, lepre e topo, mescolata con gusci d’uovo polverizzati e pietra pomice. Credo che riuscirò a tornare a Roma, prima che trovi tutti quegli ingredienti. Chissà se i britanni conoscono rimedi migliori. Indagherò. E se scoprissi che hanno una cura efficace per questo strazio farò sapere a Cesare che sono loro i veri vincitori.
Sono stato un venditore di ramen. Lo era mio padre, lo è stato mio nonno. Da loro ho imparato ogni cosa: la consistenza dell’impasto dei noodles, la sapidità del brodo di pesce, la giusta quantità di miso e di alghe essiccate, la temperatura giusta a cui servire il cibo: non troppo bollente, così che il cliente non debba aspettare e non tiepida, perché il ramen non raffreddi subito. In questa vita ho imparato poche cose: una sola alla perfezione. Avevo un chiosco al mercato del pesce di Kamaishi, trecento chilometri a nord di Fukushima. Per quarantadue anni, da quando ne avevo quindici, la mia sveglia ha suonato alle 3.35, nel cuore di moltissime notti, sette giorni a settimana. Prima delle cinque le mie pentole sbuffavano vapore e già alle sei, i pescatori facevano la fila per il mio cibo. Molti mi portavano gli scarti del pescato per il brodo. Da loro non volevo denaro. Dalle otto del mattino al primo pomeriggio, il via vai era infinito. Dopo i pescatori passavano gli studenti ancora insonnoliti, le massaie che andavano a comprare il pesce, poi gli impiegati inamidati, le ragazze in minigonna, i marinai in divisa. Servivo tutti in pochissimo tempo e per tutti avevo una parola e altrettante ne ascoltavo. Solo dopo le 14.00 riuscivo a rallentare un po’, avevo il tempo per la mia ciotola, dopo averne riempite tante e per una sigaretta. Era l’ora migliore. Qualche cliente rimaneva a chiacchierare seduto sulle panche accanto alla bancarella. Spesso parlavo con gli ingegneri della centrale, che erano turnisti e usavano il giorno libero per farsi una gita e rilassarsi. Mi piaceva il loro piglio deciso, la loro sicurezza. Avevano un certo modo di muoversi e parlare che incuteva fascino e soggezione. Con uno in particolare, Mr. Katushi, parlavo più volentieri. L’argomento era sempre lo stesso: l’energia. Mr. Katushi era capace di sorbire cinque o sei porzioni di ramen per volta, mentre chiacchierava con me. Io già stendevo la pasta per il giorno dopo e lui ancora stava decantando le lodi dell’inesauribile energia della centrale: «…che gli ambientalisti strepitano e protestano contro di noi, ma se gli togli corrente per la doccia calda e per la lavastoviglie urlano ancora di più». Dopo molti giri di sake e shochu i discorsi di Mr. Katushi si facevano più complicati, ma non meno interessanti: mi raccontava della teoria dei quanti e delle stringhe. Da qui in poi io smettevo di capire, aspettando il momento in cui Mr. Katushi pronunciava con tono solenne la mia frase preferita: «Ragazzo mio, siamo tutti energia! Lo siamo stati prima di avere questo corpo e torneremo a esserlo quando ce ne saremo liberati. Nulla si crea e nulla si distrugge. Ora ti pare che questa realtà sia l’unica possibile di spazio e di tempo, ma una dimensione di universi paralleli, può darsi che in questo stesso momento tu sia una ballerina di danza classica in Francia, un venditore di bestiame del vecchio West, una cassiera all’ipermercato, o un centurione romano agli ordini di Giulio Cesare». Lui rideva forte, scoprendo i denti, quando dicevo che avevo le gambe storte per un tutù di tulle rosa ed ero troppo basso per fare l’antico romano. Sono morto travolto dall’onda di tsunami del 11 marzo 2011, un’onda che al porto è arrivata più alta di quattro metri. Sono morto come ho vissuto: sopraffatto da un mare di brodo salato, l’unica cosa che – con i noodles – ho conosciuto alla perfezione. Forse ora danzo in teatri famosi con un tutù di tulle rosa.
Faccio la cassiera. Lo faccio per pagare l’affitto, mettere insieme il pranzo con la cena e non smettere di sognare. Da grande farò la fumettista. La scuola d’illustrazione costa un rene per ogni anno di frequenza e ne servono tre per completare il corso, quindi in ogni caso mi servirà un donatore. Per ora ascolto gente che ha fretta, che si lamenta, che impreca perché ha dimenticato il pin del bancomat e che considera “buongiorno, buonasera, grazie, mi scusi…” formule antiquate, prive di significato. Io qui sono solo un ingranaggio del meccanismo, un pezzo della cassa, non una persona. Per questo, a mia discrezione, scorro confezioni, bottiglie, scatole, sacchetti, surgelati, detersivi a una lentezza esasperante o una velocità folle, così da irritare il cliente medio, privo di sensibilità, il giusto che serve a confermargli che la sua esistenza è proprio la merda che è. In tutto questo sono stati proprio un: “buongiorno, buonasera, grazie, mi scusi…” a portarmi via. So che si tratta di un errore, ma mi sono innamorata della gentilezza di un uomo che è più vecchio di mio padre. Sottolineo della sua gentilezza, perché so di non amarlo. Avevo bisogno di quegli occhi, di quelle attenzioni, di quella gentilezza démodé che lascia bigliettini nascosti e dimentica mazzi di tulipani sul nastro della cassa. Ogni tanto sto da lui, ma non viviamo insieme. Presto non ci tornerò più e finirà così. Sappiamo entrambi che non possiamo mettere altro in questa cosa. Io non sono alla sua altezza e non voglio da lui il terzo rene che mi serve per i sogni. Sono giovane, non stupida. Da quando ho scoperto che è l’ex marito della professoressa Corvino, mi sento in colpa come una ladra. Lei era il mio mito alle medie: se voglio diventare un’illustratrice è per merito suo. Spero non si ricordi di me. Io di lei ricordo tutto: i vestiti eleganti, i capelli ricci corti, le mani da pianista, il suo modo di spiegare le cose che rimanevano in testa. So che si sono separati per fatti loro: ma resto la tipa che si scopa il suo ex, è una medaglia che non voglio. Stasera non ci torno: lascerò le chiavi nella cassetta della posta, con un biglietto. Alice mi ha invitato ad andare con lei a uno spettacolo di air dance e pole dance, così dice che non penserò a lui. Mi porto il blocco da disegno, voglio fare degli schizzi. Cerco una protagonista per il mio prossimo fumetto, magari una di queste donne favolose che si avvolgono in un nastro e si avvinghiano intorno a un palo. Una di quelle che lascia il segno.
© Anna Martinenghi, 2021
© foto di copertina di Erik Johansson
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