Una gelatinosa eternità

Prima dell’inizio dello spettacolo, come nel teatro elisabettiano, “di dietro il sipario del teatrino un suono di cornetta”. Un suono proveniente da un luogo non visibile è il segnale dell’inizio della commedia di Treplev, così come nel finale de Il Gabbiano, un altro suono proveniente da un luogo invisibile sarà il segnale della fine della commedia di Cechov.

Treplev, declama il prologo in cui evoca misteriose presenze battendo le assi del palcoscenico bastone, come in un rituale arcaico:

Treplev: O voi, venerabili ombre remote, che nelle ore notturne guizzate sopra questo lago, addormentateci e fate che in sogno ci appaia ciò che sarà tra duecentomila anni!

          Le immagini fantastiche forniscono il fondamento della coscienza, solo rivolgendosi ad immagine fantastiche Treplev potrà capire le cose importanti ed eterne, solo mediante immagini fantastiche potrà “cogliere al volo”, “accalappiare la coscienza” della madre. Evocare immagini fantastiche per poterle riconoscere nel loro inesauribile gioco di rimandi in quello specchio della natura che il teatro rappresenta e in cui l’inconscio scorge il proprio volto. Notate che Treplev evoca delle ombre notturne, che definisce “remote e venerabili”: probabilmente fantasmi di persone morte da lungo tempo, incapaci di abbandonare il lago. Forse tra le ombre evocate c’è anche il fantasma del padre di Kostja, un piccolo borghese di Kiev, un attore di talento, morto non si sa da quanto tempo, non si sa in quali circostanze, un fantasma che aleggia sul lago, nel ricordo di Treplev e nell’oblio della vedova Arkadina.

          Il tema di questa rappresentazione simbolista è il futuro, un futuro remoto ed estremo che soltanto la predisposizione visionaria di Treplev, la sua tensione continua causata dalla consapevolezza del divenire e da un’immagine conscia o latente di eternità, può concepire:

Sorin: Fra duecentomila anni non vi sarà nulla.

Treplev: Ci rappresentino appunto questo nulla.

          Il tempo non è solo la dimensione nella quale si estende la realtà, ma è anche la condizione perché si costituiscano delle possibilità. Nell’universo delle possibilità che Treplev concepisce nella sua colonizzazione del futuro vi è anche il nulla, l’assenza di essere, come paleseranno le parole della sua commedia. Del resto, Treplev è un ragazzo che “pensa per immagini”, sogna ad occhi aperti si direbbe, e – come dice Edgar Allan Poe – “coloro che sognano ad occhi aperti sanno molte cose che sfuggono a quelli che sognano soltanto di notte”. Treplev vede più cose “in cielo e in terra” di quante la mente di suo zio Sorin possa immaginare, il suo sguardo è proiettato in una prospettiva futura che tende all’eternità. Lo scrittore di riferimento di Treplev, il poeta simbolista Maurice Maeterlinck sosteneva che “la durata ovvero il tempo sta all’eternità come la distanza sta allo spazio infinito. Sono gli stessi rapporti, le stesse proporzioni, la stessa umanizzazione: del resto vana e illusoria.”

          Il tempo come vana e illusoria umanizzazione dell’eternità è il tempo vissuto dai personaggi cechoviani. Treplev cerca di rapportarsi all’eternità, a ciò che non ha durata, il teatro lo proietta in uno spazio infinito, dove vani e illusori sembrano i destini degli uomini. Lo stesso Cechov aveva nei confronti dell’eternità, e in particolar modo dell’eternità dell’anima, che l’uomo chiama immortalità, una personale posizione di ironico scetticismo. Un giorno che i colpi di tosse lo tormentavano e gli sbocchi di sangue non erano più controllabili fu ricoverato in ospedale. Lo andò a trovare Lev Nikolaevic Tolstoj. Una grande gioia per Anton Pavlovic il quale commentò: “non c’è male senza bene”. I due scrittori ebbero un’interessantissima conversazione: come disse Cechov, “interessantissima per me, perché ho ascoltato più che parlato”. Discussero di immortalità. Tolstoj ammetteva l’immortalità in senso kantiano, riteneva cioè che uomini e animali vivranno in un principio o forza che si potrebbe chiamare amore o ragione, l’essenza e il fine del quale costituisce per gli esseri umani un mistero. Cechov la pensava in modo diverso:

[…] A me questo principio o forza si presenta sotto l’aspetto d’una informe massa gelatinosa, il mio io – la mia individualità, la mia coscienza – si fondono in questa massa. D’una simile immortalità non so che farmene, non la capisco.

Nella visione simbolista di Treplev, Cechov trasforma questa massa gelatinosa tolstojana, la comune anima dell’universo, in una fanciulla innocente e virginale, interpretata da Nina Zarechnaja, “tutta in bianco”. Cechov fornisce un corpo di fanciulla ad un’idea spirituale. Una giovane donna seduta su una pietra è simbolo di qualcosa che non si può vedere, che non si può toccare. Con grande ironia Cechov materializza lo spirito. Ironia estrema considerando che il tema di fondo della commedia di Treplev è il conflitto tra materia e spirito.

          Quando si alza il sipario del teatrino “si apre la veduta sul lago; la luna sopra l’orizzonte, il suo riflesso nell’acqua.” Treplev accoglie pienamente il suggerimento di Amleto “il fine dell’arte teatrale è quello di porgere uno specchio alla natura.”

          Il sipario aperto scopre finalmente la vista del lago, mutando la prospettiva iniziale, il lago diventa l’unica scenografia della commedia di Treplev, lo specchio distorto dall’anamorfosi della coscienza. La superficie del lago dove si riflette la luna è uno specchio che moltiplica la realtà: due sono le lune della “scenografia” nella commedia di Treplev, quella reale, che brilla in cielo, e il suo riflesso nelle acque oscure del lago. Una luna che “è” e una luna che “sembra”. Il lago crea un altro cielo, un altro universo possibile contenuto nelle sue profondità.

          Nina appare seduta “su una grande pietra”, la sua immagine si colloca tra le due lune, come terzo volto di Ecate: 

Nina: Gli uomini, i leoni, le aquile e le pernici, i cervi dalle ampie corna, le oche, i ragni, i muti pesci abitanti nell’acqua, le stelle marine e quegli esseri che non si potevano scorgere a occhio nudo, – in breve tutte le vite, tutte le vite, tutte le vite, compiuto un malinconico ciclo si spensero… Da migliaia di secoli ormai la terra non porta sul dorso nemmeno una sola creatura viva e questa povera luna accende in vano la propria lanterna. Sul prato ormai non si svegliano con un grido le gru, e non si sentono i maggiolini nei boschetti di tigli. […]

          La commedia di Treplev racconta la storia un mondo desolato e abbandonato. Un deserto post-apocalittico, la cui immagine ammanta simbolicamente l’intera commedia di Cechov, manifestandosi poi nell’ultimo atto, quando il teatrino in cui ora si rappresenta il lavoro di Treplev sarà una carcassa abbandonata, in un apogeo della meta-teatralità. Nell’immaginazione sofferente di Treplev il mondo è popolato di fantasmi, di ombre:

Nina: […] Freddo, freddo, freddo. Vuoto, vuoto, vuoto. Paura, paura, paura. (Pausa). I corpi delle creature viventi svanirono nella polvere, e l’eterna materia li mutò in pietre, in acqua, in nuvole, e le loro anime tutte si fusero in una. La comune anima dell’universo sono io… io… In me sono le anime di Alessandro Magno e di Cesare e di Shakespeare e di Napoleone, e dell’ultima sanguisuga. In me le coscienze degli uomini si fusero con gli istinti degli animali, ed io ricordo tutto, tutto, tutto, e rivivo in me stessa ogni vita.

Nel 1852, William Thomson Kelvin nel suo saggio Sulla tendenza universale alla dissipazione dell’energia meccanica in natura, prediceva su base scientifica la morte della terra per perdita di calore, come risultato della seconda legge della termodinamica – l’ammontare di energia disponibile nell’universo per lavoro utile è sempre decrescente mentre cresce l’entropia (irregolarità e disordine). La commedia di Treplev sembra immaginare questo tempo non adatto all’uomo, dove l’entropia ha cancellato ogni forma di vita materiale. È chiaro che se la commedia è stata scritta per sortire un effetto su Arkadina, l’immagine di un mondo esclusivamente spirituale va interpreta come un monito, o un rimprovero dell’autore alla madre presente in platea. Quando Treplev ha parlato di Arkadina con lo zio ha lamentato l’attaccamento della madre alla materialità del danaro, usando poi le parole di Amleto l’ha accusata di essere “sprofondata nel vizio”. Treplev vuole mettere davanti alla madre l’immagine della desolazione che deriva dalla materialità senza spiritualità. Del resto, questa assenza di spiritualità in Arkadina è la ferita che causa del profondo dolore di Treplev, il quale altro non desidererebbe che essere amato dalla madre. La freddezza dei rapporti tra madre e figlio è espressa anche dall’immagine del freddo che produce vuoto e paura. Se non si vivono i rapporti intimi in modo spirituale, sembra ammonire Treplev, si accelera la naturale entropia del mondo fino a quella che Husserl chiamerà la morte glaciale – Eiszeittod.

Le parole della commedia di Treplev sono un grido disperato, una richiesta di amore e calore umano che Arkadina non dimostra. L’immagine di un mondo freddo e vuoto è dunque l’avvertimento di Treplev alla madre: questa è la fine della materia. Se Arkadina si continuerà a dedicare alla materialità delle sue camicette chiare, delle sue toilettes, del suo denaro di Odessa, farà la stessa fine di “leoni, aquile e pernici”, compiuto il suo “malinconico ciclo” si spegnerà. Invece se si dedicherà alle cose spirituali e sacre, come l’amore per il figlio, potrà sopravvivere alla sua stessa materialità nella memoria del figlio amato, che è l’unica possibilità di immortalità concessa agli esseri umani.

©Matteo Tarasco

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