Ta-tum

Alla fine erano riusciti a inserirla nella capsula, nonostante ella opponesse una resistenza al limite delle sue possibilità.
Le avevano intimato di non muoversi, che se avesse urlato o respirato convulsamente, quella permanenza forzata sarebbe durata ancora di più. Lei smise di agitarsi e impose a sé stessa di fingersi svenuta, già, ma come si presenta una persona prima di sensi?
Respira, certo, ma piano, lentamente e non muove un muscolo, ma quel dito continuava a contrarsi e lei lo sentiva. Un muscolo, un nervo, non sapeva cosa fosse, qualcosa che produceva un piccolo spasmo muscolare e non era possibile farlo smettere. Così non sembro affatto svenuta, si diceva, e invece devo convincermi di esserlo, solo così posso sperare di uscire da questa trappola.
Un sibilo stridulo e poi tonfi alternati, come un martello pneumatico al lavoro proprio vicino al timpano, o forse dentro? Mi stanno perforando l’orecchio per entrare nel cervello, si diceva, ne era sicura ormai, era l’unica spiegazione per quel trapano sempre più vicino, sempre più invasivo. Stava entrando e lei non poteva e non voleva girare la testa, non era in grado di vedere nulla, con la testa immobilizzata e gli occhi fissi verso l’alto.
Era un sogno ricorrente: si trovava a letto e dormiva, all’improvviso una forza irresistibile l’abbracciava sollevandola delicatamente mentre lei non riusciva a muovere un muscolo, naturalmente dalla bocca uscivano solo rantoli flebilissimi e i polmoni avevano dimenticato come espandersi, non permettevano all’aria di entrare e lei si chiedeva come potesse essere ancora viva, senza respirare. Si sollevava verso il soffitto e poi attraverso, come all’interno di una sostanza gommosa e disgustosa che le copriva il viso, aggrappandosi agli alveoli polmonari straziati dall’ipossia. Non vedeva mai cosa c’era oltre quell’ostacolo perché gli occhi si riempivano di melma gommosa e le narici quasi scoppiavano sotto quella pressione,
sapeva solo che quella forza rabbiosa non avrebbe smesso di attirarla a sé.
Ogni volta si svegliava cercando furiosamente di fagocitare aria, sfuggendo all’orrore di quell’abbraccio ipnotico.
Di nuovo il sibilo, come il verso di un predatore ferito che urla per mettere in fuga l’avversario, un urlo spettrale, una frequenza orribile che l’orecchio umano percepisce come segnale di pericolo e lei si
sentiva una preda facile, esanime, nuda.
L’antro era in penombra e dietro la testa sentiva una corrente d’aria fortissima, forse sarebbe stata sbalzata fuori dalla capsula dopo essere stata manipolata e studiata, un volo verso l’esterno, come
risucchiata dall’oblò di un aereo in quota. Al pensiero di quel volo le mani si chiusero automaticamente, come per trovare un appiglio e non cadere verso quel buco nero, ma doveva restare immobile, forse quel gesto le sarebbe costato caro. Restò totalmente paralizzata per qualche secondo trattenendo il respiro, in attesa di percepire un rimprovero, uno scatto d’ira, una minaccia, qualcosa che scavalcasse quel frastuono di botto, botto, botto e vibrazione e sibilo.
Non si erano accorti di nulla. La trappola continuava a bombardare il suo corpo con vibrazioni esasperanti e quel vento sembrava l’unica via di fuga, ma verso dove?
Immaginava sé stessa fluttuare in un liquido universo gelato, in mezzo alle frattaglie tecnologiche che tutte le civiltà intelligenti riversano con noncuranza nello spazio, ordigni innescati di ogni tipo, veicoli utilizzati per esplorare mondi antichi e comunicare falsi attestati di non belligeranza, sentite qua che melodie riesce a creare la nostra splendida civiltà, che versi riusciamo a comporre. Esseri pensanti che cercavano di stanarne altri in ogni angolo del creato con la finta promessa di un confronto fra civiltà e non si riesce neanche a far convivere popoli di tifoserie religiose diverse all’interno di uno stesso pianeta. Per carità!

Ta-tum – Ta-tum – Ta-tum i tonfi continuavano a conficcarsi nelle sue orecchie, e quel fischio orrendo che segnalava un allarme, un pericolo, un essere straziato con quelle cose che somigliano a occhi umani del tutto schizzati fuori dalle loro sedi, una esortazione, fuggi, adesso.
All’improvviso si sentì toccare il braccio che le era stato posizionato sopra la testa e tenuto fermo in qualche modo che non era riuscita a capire. Un tocco gommoso come il soffitto dei suoi sogni, qualcosa
di caldo ma sfuggente, come una protuberanza liscia, un tipo di plastica, adesso la afferrava e indagava sul suo braccio, cercava o voleva forse tirarla, attrarla a sé?
Nessun altro suono, solo Ta-tum – Ta-tum – Ta-tum e l’urlo straziante di quel sibilo.
La stretta cessò e dopo pochi istanti avvertì l’inizio della combustione.
Dentro il suo corpo poteva sentire chiaramente le cellule che si scaldavano ed era una sensazione ributtante. La sua pelle sembrava ancora perfettamente fresca, non c’era sudore che le imperlasse la
fronte o le solleticasse l’incavo del seno, ma dentro, proprio all’interno del suo corpo, i suoi organi stavano prendendo fuoco. Sentiva distintamente la vescica arroventarsi, forse doveva urinare, si sarebbe bagnata di urina bollente che le avrebbe bruciato le cosce.
Si concentrò, si sintonizzò su quel Ta-tum – Ta-tum – Ta-tum, pensa al ritmo, si disse, segui il ritmo e chiuditi dentro di te.
Dominò la sua mente confusa e irrigidì ogni muscolo. Riuscì a trattenersi, sempre restando immobile, se si fosse finta morta sarebbe finita prima. Il calore si spense e il suo corpo tornò a rinfrescarsi. Forse irrigidendo le membra aveva combattuto quel morbo che evidentemente le era stato riversato dentro. Aveva combattuto contro quella peste e l’aveva espulsa senza che i suoi liquidi interni potessero bruciarla.
Continuò a concentrarsi su Ta-tum – Ta-tum – Ta-tum come se fosse una formula magica, la chiave per fuggire da quella capsula, una litania che poteva forse salvarla. Pensa a Ta-tum, continuava a ripetere a sé stessa, conta i Ta-tum, ti porteranno fuori, si diceva, non pensare al sibilo, quello serve solo a terrorizzarti, devi solo sintonizzarti su Ta-tum se vuoi uscire da qui.
Il vento non accennava a calmare la sua furia dunque l’apertura era ancora accessibile dietro la sua testa, esisteva una via di fuga e c’era sempre Ta-tum. Immobile contava e aspettava la sua occasione per fuggire dopo aver sconfitto l’autocombustione. Adesso era convinta che sarebbe riuscita a uscire da lì.
Non era in grado di calcolare quanto tempo fosse passato dall’inizio di quell’incubo, non aveva parametri, era chiusa in una penombra perenne e quel vento non cambiava mai di intensità. Era sempre lì dietro, come in attesa di inghiottirla (o salvarla?), e poteva addirittura essere un artificio, un trucco per confonderla, per farle credere che ci fosse una via di fuga, in sostanza, per renderla docile e arrendevole.
Fai credere alla bestia che va tutto bene, le parli con tono dolce, mellifluo mentre con le mani la indirizzi dolcemente dentro la gabbia e poi la porti al macello. Ma lei sapeva di dover restare ferma, immobile, remissiva, malleabile, altrimenti l’avrebbero costretta, legata, straziata mentre ogni parte del suo corpo esigeva di contrarsi e liberarsi dalla morsa.
Dopo qualche centinaia di unità di misura di agonia, mentre il vento continuava la sua inutile esibizione monocorde si fermò il Ta-tum lasciandola totalmente priva di punti di riferimento. Silenzio. Solo un’ambigua assenza di vibrazioni. Sarebbe ricominciato all’improvviso? Sarebbe passata a una fase successiva? Non osava cullarsi in un pericoloso ottimismo immaginando che avessero finito con lei. Eppure aveva superato la combustione, era rimasta immobile, respirava appena, aveva piegato il suo corpo alla volontà di opporre resistenza a quella capsula, non aveva tentato di fuggire e dunque non era stata immobilizzata. Pensavano fosse svenuta? Può darsi. Forse lo sospettava essa stessa, sì, sono svenuta e per questo non sento più Ta-tum.
«Abbiamo finito.»

Di nuovo quel tocco caldo e viscido sul braccio innaturalmente piegato dietro la testa. Si era irrigidito e tremava per lo sforzo, come se lo stesse usando per reggersi attaccata a un cornicione.
Immaginava fosse diventato blu. Fu colta di sorpresa e sobbalzò mentre una pedana la trasportava dolcemente all’esterno. Non respirò, ingurgitò letteralmente l’aria.
«Ce l’ha fatta, è stata bravissima. Deve essere orgogliosa di sé stessa.» Indossava i guanti di lattice con i quali l’aveva toccata per iniettarle nel braccio il liquido di contrasto, dandole la sensazione di un viscido calore sulla pelle. «La claustrofobia è terribile e so che deve aver avuto una paura del diavolo, ma ce l’ha fatta, ha vinto lei».
La aiutò a mettersi seduta, le girava la testa, era in iperventilazione. La guardò con sincera ammirazione «la vedo davvero provata, purtroppo capitano diversi pazienti che hanno questo tipo di fobia e non sempre riusciamo a finire la TAC, ma lei ce l’ha fatta. Spero che le sia stato utile il consiglio che le ho dato prima, quello di concentrarsi sul suono ritmico della macchina.»
Così le aveva detto: conti i Ta-tum.

©Ale Ortica

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