Stretti a coorte

Piera era la nipotina di Max, dodicenne alta e segaligna con capelli lunghissimi e una fossetta sul mento che presto sarebbe stata una calamita per giovincelli con gli ormoni in centrifuga. Cantava da solista nel coro della scuola e quindi non potevano mancare, anche perché la ragazzina era particolarmente affezionata allo zio e aveva davvero bisogno che lui le tenesse la mano con quelle speciali occhiatine che usavano scambiarsi, estraniandosi dal resto del mondo.
«Allora Ciccia, il piano è questo, si va un’ora prima quest’anno e si pianta la bandierina sotto la Madonna addolorata con la quale ci scambieremo occhiate d’intesa dopo i primi accordi. Tu verrai armata di libro e lucina da lettura, io difenderò l’avamposto scoraggiando eventuali attacchi da parte dei parenti invadenti che tentassero di insinuarsi tra le nostre gambe per fare i video», disse Max invitando Nina a predisporre armi e bagagli per la recita di fine anno delle medie.
«Cicci, cosa abbiamo sbagliato l’anno scorso? Mi fa ancora male la schiena per quelle tre ore in piedi, cioè, su un piede solo, col telefonino che riprendeva alla cieca, la signora anziana che spingeva e sgomitava, i ragazzini che facevano muro, mio Dio! Mi sveglio ancora tutta sudata, non so se riuscirò a farcela un’altra volta!» rispose lei con tono lamentoso, lo sguardo perso nell’incubo, terrorizzata all’idea di dover affrontare nuovamente quell’avventura.
Lui la prese tra le braccia e cercò di rassicurarla «ma quest’anno siamo preparatissimi, sappiamo riconoscere i posti buoni e possiamo neutralizzare nonni e vietcong delle foto, scaverò una trincea per te, ti difenderò, se necessario punterò dritto a caviglie, bastoni e girelli, possiamo farcela.»

Il concerto di fine anno si teneva in una chiesa grande, spaziosa, costruita negli anni sessanta forse con l’intento di punire i fedeli, di una bruttezza sublime, ricordava un capannone da elettrauto costruito con un mattonato grigio e inquietanti ghirigori, insensati orifizi nelle pareti piazzati in ordine sparso che forse erano addirittura voluti, tipo, operai fate un po’ come vi dice il sentimento, bucate qua e là, si chiama arte.
Max e Nina arrivarono un’ora prima dell’inizio e si precipitarono a occupare la prima panca non destinata alle autorità del paese: sindaca in doppia veste di rappresentante delle istituzioni e mamma di un orchestrale, dirigente scolastico e un paio di assessori. Dopo un rapido calcolo Max stabilì che il posto migliore era esterno ala sinistra, effettivamente con vista su Madonna addolorata.
«Cicci, sbaglio o i santi solitamente sono rivolti verso i fedeli? Li dovrebbero guardare, in modo intimidatorio, tipo “so cosa hai fatto, pentiti stronzo!”, giusto?»
«Sì Ciccia, i santi vegliano su di noi e ci osservano, quindi niente dita nel naso.»
«No perché, la Madonna è girata al contrario, guarda verso il muro invece che verso di noi. O l’hanno spostata dalla sua sede originaria e l’hanno dimenticata così o si è compiuto un miracolo e ce ne
siamo accorti solo noi atei.»
«Oh poverina, ci sta comunicando un certo disagio. Prima di tornare a casa passo da lei a esprimerle la nostra stima.»
Nina riuscì a leggere qualche pagina del libro che aveva portato con sé mentre Max commentava ogni particolare, i parenti che giungevano vestiti da grande soirée, benvenuti alla fiera del sintetico, venghino sioriii venghino alla grande esposizione dello strass e dei luccichini, odore di lacca elargita con generosità su capelli che non ricordavano più il proprio colore originale, gente che si scambiava consigli medici, prescrivendo farmaci e illustrando i benefici di certe pasticche fatte così e cosà che poi quando vado a casa leggo come si chiamano e te lo scrivo su uossaps.
Perfettamente in mezzo al corridoio tra le file ordinate delle panche era stata eretta una sorta di torretta da bagnino di Baywatch, una scala da muratore con un trabiccolo montato sopra per sorreggere
una macchina fotografica digitale. Ai lati erano stati attaccate con lo scotch due pagine di quaderno recanti la qualifica dell’utilizzatore della torretta di guardia: “Regista, ciak si gira”.
Il regista era un ometto di mezz’età con una pancia prominente e l’aria di uno che viene pagato troppo poco per essere lì. Saliva sulla scala, sbuffava, si lamentava, scendeva ansimando, risaliva, provava
l’inquadratura e ogni volta che tornava a toccar terra spostava l’ingombro un po’ più avanti, fino ad arrivare a chiudere completamente il campo visivo, eccoci qua, il primo nemico da abbattere.
«Stai tranquillo Cicci, anche io venderò cara la pelle e intendo dare il mio contributo alla causa. Senta, scusi, Kubrick, dica… può spostarsi molto più avanti o molto più indietro, o molto via da qui? Sia buono…»
Occhi da cerbiatta, Nina dava indicazioni all’ometto agitando le mani mentre Max provava le inquadrature «noooo Ciccia, dirigilo tutto indietro, oddio no era meglio prima…»
«Buonuomo, abbia pazienza, più in là… (così Cicci?), no caro, uno zinzino più in là, sì così, bravo sì, dai Tarantino non mi mollare adesso…»
«Ciccia non so se riusciremo a fare foto decenti ma tu stai interpretando magistralmente un porno in chiesa e questo mi ripagherà di tutto.»
Dopo che Nina aveva sistemato il regista che soddisfatto uscì a fumarsi una sigaretta, la professoressa organizzatrice del concerto prese posto davanti al microfono e cominciò a leggere i suoi appunti
sul primo brano in scaletta, incespicando, mettendo enfasi sui punti sbagliati, cannando i nomi degli orchestrali, aggiustandosi degli occhiali con lenti talmente profonde da sembrare emanazioni dei
propri bulbi oculari.
«Ciccia secondo te Sibilla Cooman ci interroga alla fine del concerto? Perché non ho ripassato divinazione ieri.»
«Scusa Cicci, sono molto impegnata, sto fissando quell’omone in modo intimidatorio e pressante, presso e intimidisco, intimidisco e presso, non posso interrompere il contatto visivo, è di fondamentale
importanza in questo momento, ce l’ho in pugno.»
Un signor cameramèn sulla sessantina con due ali di capelli che partivano dalle orecchie e si congiungevano in una sorta di codino “Volevo essere Fiorello” timido e raffazzonato dietro la nuca
spelacchiata, stava tentando una spudorata manovra di conquista della navata principale al fine di fotografare con agio e tranquillità il proprio virgulto, il che naturalmente corrispondeva a una
dichiarazione di guerra per Nina. Ella lo aveva avviluppato in una spirale di astio e aggressività latente, una minaccia neanche tanto velata racchiusa in uno sguardo che lo avvolgeva come la tela
dell’Uomo Ragno, tu non puoi avanzare, non ti permetterò di occludere il mio campo visivo, ti annienterò maledetto Venom, non mi provocare, non è un bluff.
E Venom avanzò.
«Cristo santo…» sibilò Max mentre Nina planava fulminea sulla preda come un’aquila e toccandogli la spalla ringhiava «gentilmente, signor sipario, non vedo mio figlio, per quanto apprezzi la visione
del suo sontuoso sedere, potrebbe spostarlo?»
Lei lo fissava rivolgendogli il suo miglior sorriso alla Jack Nicholson, sì amico, l’ho chiamato sontuoso sedere, sono una fuori di testa, sono imprevedibile, potrei fare qualunque cosa perché non ragiono lucidamente, te la senti di rischiare di trovarti in una situazione imbarazzante? Suvvia, il gioco vale la candela?
Mister Sedere si spostò e lei tornò al suo posto vicino a Max che la guardava con rinnovata ammirazione, forse adesso la amava un grammo di più.
Ebbe luogo una pantomima con una bimbetta sui cinque anni in un vestito che voleva sembrare tradizionale regionale, very china edition, la quale fingeva di esser lì per caso. Sibilla Cooman la invitò a
raggiungere il microfono per espletare il rito delle solite battutine dolci con la spontanea creaturina e presentare un tipico brano paesano. La professoressa si chinò e chiese alla piccina «come ti chiami bella paesana?», quella spalancò il più bel sorriso da polpettina di papà e disse «mi chiamo Maria Michelle», un nome classico della tradizione italiana.
«Quelle horreur, Ciccia! Dove sono finiti i bei nomi della nostra terra? Le Suelle, i Ghevin! Datemi più Daiana, santiddio!» si agitò Max.
Arrivò il momento dell’assolo di Piera, il microfono ebbe un mancamento e si spense all’improvviso. Fu maneggiato più volte dalla Cooman, venne esaminato da vari orchestrali che gettavano la spugna grattandosi vistosamente la testa e dal regista sulla scala, intanto quel coso si ostinava a restar muto mentre cresceva un sibilo.
«Ci siamo fottuti una cassa, par di capire» sussurrò Max, «non un male, direi.»
Intanto una tozza figura si aggirava dietro l’altare cercando disperatamente il sacro Graal ell’inquadratura perfetta, era mister Sedere che ancora non aveva trovato pace dopo lo scontro con Nina.
Una nonnina si aggirava con un’irritante nonchalance in mezzo alla navata, quel territorio che da due ore Nina cercava di difendere dagli attacchi nemici. La barbara avventuriera, sugli ottant’anni,
camminava verso gli orchestrali come se avesse il diritto di espandersi come un enorme lenzuolo e impedire a tutti la visione dello spettacolo.
«Ferma Ciccia, stiamo mietendo troppe vittime, lasciamo al cerbiatto il tempo di accorgersi del leone, magari scappa via prima che il microfono resusciti», Max accarezzava il braccio di Nina, intanto quella Sora Lella con gli occhi da piccione faceva una panoramica dei ragazzi dell’orchestra per capire se conosceva qualcuno e si stuzzicava i denti con l’unghia del mignolo.
Il microfono subì una violenza di gruppo, venne strattonato e colpito da tante mani, malmenato e ferito nell’orgoglio, pur tuttavia, invece di incamminarsi verso la luce decise di riprendere i sensi.
Mister Sedere stava cercando di arrampicarsi sui banchi destinati ai bambini del catechismo, dietro l’ambone.

Sora Lella decise che aveva registrato abbastanza informazioni, si scrostò ancora qualche avanzo di pranzo da un incisivo, lo ispezionò con cura e decise che tutto sommato poteva farne a meno, quindi gettò il residuo a terra e lasciò la navata.
Mister Sedere era scomparso alla vista.
Piera cominciò a cantare.
Malino a dire il vero, ma fu davvero molto graziosa.
Il concerto volgeva al termine e qualche professore decise che sarebbe stato bello dedicare alla congrega una ventata di spirito patriottico, quindi la Cooman annunciò che l’orchestra avrebbe eseguito l’Inno degli Italiani, ma il coro non avrebbe cantato perché il pubblico stesso era invitato a eseguirlo.
L’unica parola chiaramente espressa da tutti fu il “sì” finale.
«Ah Ciccia, come sempre è stato un piacere essere l’unico stretto a te in battaglia mentre tutti gli altri decidono di stringersi “a corte”.
La corte di quale re non lo ha mai spiegato nessuno ma io non amo le ammucchiate, sono volgari.»
Nina era disfatta.
«Cicci, anche quest’anno abbiamo sbagliato qualcosa, non può essere così faticoso seguire un concerto di fine anno, io sono distrutta.»
«E non solo tu mia cara, hai notato mister Sedere? Verso la fine era appoggiato al muro vicino alla statua della Madonna ritrosetta, col mento sullo stomaco, aveva perso la voglia di vivere.»
«Già… eh Max, oddio, ora che ci penso… ma alla fine Piera ha cantato?»

©Ale Ortica

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