DI CERTEZZE MANCANTI E DI INCONSAPEVOLI GUERRE
In un mondo dominato dal caos, da sempre l’uomo cerca rassicurazione nelle piccole certezze concrete: il pranzo di Natale si concluderà con un numero spropositato di mandarini, la domenica mattina il vicino di casa trapanerà la parete contigua alla vostra camera da letto e la natura alternerà ciclicamente le stagioni. È sempre stato così.
L’età contemporanea, tuttavia, non ci permette di esserne più certi e ci priva delle nostre convinzioni: da quando il pianeta è gravato dall’incombenza di dimostrare a Trump che il surriscaldamento globale non è un’invenzione dei comunisti, viviamo una sorta di eterna estate, un periodo indefinito con picchi di trenta gradi nel mese di ottobre. Lo sbalordimento è tale che non riusciamo a gestirlo, ci dividiamo tra chi nega il caldo anomalo e chi lo accoglie con entusiasmo: la moda, incurante della temperatura, propone la collezione autunno inverno e fa sfilare modelle e modelli avvolti in pellicce di visone e sciarpone in cachemire; i ragazzini, intanto, fanno la fila dal gelataio in bermuda e infradito. Rimandiamo il cambio armadi da un paio di mesi, vestiamo canottiere e gonne di lino mentre l’Esselunga mette i pandori in offerta.
L’accostamento di bambini imbacuccati da mamme ligie al calendario e turisti tedeschi che prendono il sole sulla darsena a petto nudo e piedi in acqua ci fa sorridere. Mai come in questo momento sfoggiamo perle quali «non ci sono più le mezze stagioni» o «di questo passo dove andremo a finire, signora mia?». Pensiamo di snocciolare il più classico dei repertori da ascensore, frasi di circostanza prive di consistenza, non ci rendiamo conto della portata delle nostre parole.
Perché non stiamo chiacchierando del tempo, non stiamo occupando un silenzio. No, noi ci stiamo schierando. Senza che ce ne rendessimo conto, abbiamo preso parte all’ultima battaglia dei nostri giorni, la guerra tra gli ultras dell’estate e quelli dell’inverno.
Ormai non ci si lamenta del clima. No, si racconta un’estate di colli umidi e ascelle sudate che non si decide a finire. E la si racconta con rabbia. Basta rinunciare a cappottini e stivaletti, vogliamo il freddo, la neve e la cioccolata, siamo stanchi di insalate di riso e anziani che bevono alle fontanelle per finire su Studio Aperto!
Chi ascolta non può rimanere indifferente, ha due alternative: può appoggiare l’ultras dell’inverno aggiungendo aneddoti di puzza sui mezzi pubblici e cali di pressione o può, se abbastanza audace, schierarsi contro. In questo caso, il prode difensore della bella stagione, sfoggiando un’invidiabile abbronzatura, si toglierà gli occhiali da sole e risponderà piccato «preferisci le tisane al finocchio al mojito? I piedi congelati al sole sulla pelle? I fazzoletti smocciolati alle granite al mare?»
E così, signori, inizia la più subdola delle guerre che combattiamo senza rendercene conto. Siamo passati dall’era della lamentela, già di suo relativamente spiacevole, a quella della guerra, ci rinfacciamo reciprocamente i fastidi stagionali sperando che il nostro avversario li paghi e li paghi tutti. È lo sdegno a farci alzare al mattino, la voglia di urlare al mondo la superiorità della nostra fazione, è la rabbia a tenerci vivi.
Quasi quasi preferivo la lamentela.
©Chiara Munda, 2108