Non sapevo che passavi [3] di Stefano Domenichini

In foto Giuseppe Ticozzelli
In foto Giuseppe Ticozzelli

GIUSEPPE TICOZZELLI
(maglia nera)

La mattina del 18 gennaio 1920 Giuseppe Ticozzelli uscì dalla casa di Castelnovetto, provincia di Pavia, dove era nato il 30 aprile 1894.
Si aggiustò il tascapane, con dentro i panini e l’immancabile gazzosa, e salì in bicicletta. Essendo alto 187 centimetri per 95 chilogrammi di peso, il velocipede tendeva a scomparire sotto la sua mole. Se Hanna e Barbera, a quel tempo, non fossero girati intorno ai dieci anni, sarebbe stato soprannominato Napo Orso Capo, per l’illusione che dava di pedalare l’aria.
D’altra parte, l’altezza media degli italiani era di 165 centimetri e il livello di personalizzazione delle biciclette era ancora in fase di annidamento. Il suo pedalare per le campagne della Lomellina non aveva nulla a che fare con lo spostamento (tropismo, direbbe il Maestro Palazzolo1): era narrazione dello spazio, dinamismo della luce, spezzata e ricomposta dal fruscio di quel corpo immenso.
Per i futuristi, vederlo passare era come entrare in un bordello di lusso. Puro godimento. Boccioni era già caduto, a Chievo nel 1916, ma aveva fatto in tempo a dipingere Dinamismo di un ciclista e Dinamismo di un giocatore di calcio. Praticamente aveva dipinto lui, Ticozzelli.
Perché quel 18 gennaio 1920 il Tico pedalava verso Milano, 56 chilometri, per andare al Velodromo di Corso Sempione dove era in programma l’amichevole Italia-Francia. Il Responsabile Tecnico Resegotti l’aveva convocato. Doveva far coppia con Renzo De Vecchi del Milan nella difesa azzurra.
Dopo Vigevano varcò il Ticino e, d’istinto, volse il guardo, perché oltre a essere da sei anni uno dei giocatori più rappresentativi dell’Alessandria, si era diplomato geometra e ragioniere.
Alle porte di Abbiategrasso si fermò all’Osteria La Pendola. Gazzosa e panini finiti. La bicicletta riapparve e fu appoggiata a un muro. Un avventore riconobbe il colosso.
«Inda vet, Tico? Te pers la roda ed Baslott?».
Baslott era un amico di Ticozzelli, che lo accompagnava nei suoi allenamenti in bicicletta. Con alterne fortune, bisogna dire, visto che Baslott di cognome faceva Rossignoli e aveva già mietuto successi al Giro d’Italia.
«No», rispose Ticozzelli «vò a mangià galett e lumag.»
Ma quello era il menù del pomeriggio. Per il momento Ticozzelli ordinò pannerone con il miele e un piatto di luganega. Fece il pieno di gazzosa, e ripartì.
Quando si fermò davanti alla porta di ingresso, al Velodromo c’erano 14.000 spettatori e un cartello che comunicava il mancato arrivo della nazionale francese a causa del quale la partita internazionale veniva sostituita con una gara contro un’improvvisata rappresentativa milanese.
La bestemmia di Ticozzelli fu strozzata da due eventi simultanei: un gigante gassoso con nucleo di luganega che gli attraversò l’esofago chiedendo il suo spazio per esprimersi e il centravanti Brezzi (quel giorno avrebbe segnato tre gol) che, correndogli incontro, diceva che galletti e lumache erano arrivati, solo avevano magliette uguali alle nostre, ma era questione di trovarne delle altre.
Finì 9 a 4 per l’Italia. Ticozzelli dovette fermarsi a Milano. La Federazione, per festeggiare, aveva organizzato una cena in un ristorante di lusso. Menù fisso: lumache alla parigina. Tico provò un forte imbarazzo, sia fisico che emotivo, ma aveva già combattuto una guerra mondiale e non arretrò di un passo.
Baslott era più vecchio di dodici anni. Ticozzelli lo vide la prima volta nel 1907, quando andò a Pavia per il passaggio della Milano-Sanremo. Baslott era in fuga, sotto una tempesta d’acqua. All’altezza della Porta di Borgoratto, Tico vide una donna che correva incontro al corridore e gli porgeva un ombrello. Baslott rallentò, aprì l’ombrello, e ripartì di gran lena, con quel suo stile scimmiesco, goffo ma efficace, reso ancor più dissestato dal parapioggia nero che, tra coefficiente di viscosità dell’attrito e rimbalzi dell’acciottolato umido e fangoso, si sentiva inutile e perso, ma presente in quell’attimo di marzo.
Quando, anni dopo, il Tico conobbe Baslott, gli chiese se quell’ombrello fosse arrivato in riviera. Il ciclista si fece serio, abbassò il mento e disse: «Quella donna era mia madre. Ho dovuto aspettare tre curve prima di buttarlo via».
Baslott andava al Campo degli Orti (detto anche la Fabbrica del Fango) a vedere le partite dell’Alessandria. Era lì quando il Tico stabilì un record ancora imbattuto: gol da 75 metri, direttamente da calcio di rinvio. Roba sua. Frammenti. Sfide continue.
Solo in bicicletta accettava di stare al coperto, e solo se davanti c’era Baslott. Quando attraversavano le campagne pavesi, il muggito metallico dell’aria lacerata dai raggi, faceva alzare le teste. Una scimmia inseguita da un gigante, nella foschia gelata dell’inverno e nella luce bollente dell’estate.
Nel 1921 Ticozzelli va a giocare a Ferrara, nella Spal. Ci resta tre anni. Poi lo compra il Casale, una delle squadre più forti dell’epoca. Finalmente può tornare in bicicletta con Baslott.
Il Casale, fin dalla sua nascita avvenuta nel 1909, ha sempre avuto la maglia nera, per contrapposizione cromatica con gli odiati nemici della Pro Vercelli. Il colore fu scelto dal fondatore, un professore di filosofia ebreo, Alberto Jaffe, che all’indomani dello scudetto conquistato dai bianchi della Pro Vercelli, riunì i suoi studenti e disse: “Non esiste. Adesso ci mettiamo a giocare noi, altrimenti nessun casalese potrà più prendere sonno”.
Il 2 maggio 1926 il Casale batte il Legnano 5 a 0, ma Ticozzelli si infortuna a un occhio; niente attività traumatiche per un mese. La bicicletta può andare? Sì, la bicicletta può andare, per tenersi in forma.
Ma il Tico, senza partite, è un animale in gabbia. Baslott lo sente ringhiare su e giù per le colline dell’Oltrepò. Un pomeriggio, in un’osteria tra Stradella e Redavalle, gli dice: “Perché non vieni con me al Giro? Si parte il 15”.
Ticozzelli si iscrive da indipendente. Non ha una squadra e alla partenza di Milano si presenta con la maglia nera del Casale.
Nella prima tappa (Milano-Torino, 275 km) perde quasi subito la ruota di Baslott, ma dalle parti di Valle Mosso raggiunge Alfredo Binda, protagonista di una rovinosa caduta. La maglia nera del Tico si incolla a quella sanguinante del campione e arriva a Torino con quasi quattro ore di ritardo.
La seconda tappa (Torino–Genova, 250.5 km) e la terza (Genova-Firenze, 312 km) diventano la sua passerella. Ticozzelli accumula ritardi, grugna, sbuffa, canta e si arruffa, ma la gente lo aspetta sulla strada. “Ultima la maglia nera di Ticozzelli” è diventato il motto più famoso del paese.
I giornalisti lo seguono, si siedono con lui nelle osterie dove il Tico, che non ha suiver a passargli cibo e borracce, si ferma ogni tanto a rifocillarsi.
Nella quarta tappa (Firenze-Roma, 287.2 km), mentre scende le colline del Chianti, scarta di lato per evitare un fagiano e una moto lo investe. È costretto al ritiro. Il vincitore di quell’anno non è passato alla storia, ma la maglia nera è diventata un simbolo, ambita per anni allo stesso modo di quella rosa.
Ticozzelli torna in campo il 4 luglio, quando il Casale batte il Verona 3 a 2. Si ritira cinque anni dopo, a trentasette anni.
Per un po’ allena, molto si rode. La notizia che ci sono guerre in vista lo torna a riempire di entusiamo. Si arruola volontario come Ufficiale di Artiglieria, Battaglione 3 Gennaio, e parte per l’Africa Orientale. Ma la sua guerra dura poco: una granata lanciata da un partigiano abissino lo colpisce in piena faccia e lo rende cieco.
Tornato in Italia, si trasferisce a Milano e tutte le domeniche si fa accompagnare allo stadio da un parente che gli racconta la partita2. Fosse esistita la prevendita, gli avrebbero scovato in tasca il biglietto per il derby del giorno dopo, quando lo trovarono morto il 3 febbraio 1962.

1 Ci sono scrittori che usano la lingua per scrivere e scrittori che, scrivendo, una lingua se la inventano. Uno era Carlo Emilio Gadda, l’altro è Rosario Palazzolo. Autore, attore e regista teatrale (tra gli altri, Letizia Forever, Poetica del Fallimento e Portobello never dies), ha scritto tre romanzi che anche Ticozzelli avrebbe tenuto nel tascapane, assieme alla gazzosa: L’Ammazzatore (Perdisa Pop, 2007), Concetto al buio (Perdisa Pop, 2010) e Cattiverìa (Perdisa Pop, 2013).

2 Ticozzelli era cieco e la partita se la faceva raccontare. Gianni Montieri è un (grande) poeta e dice che lui la partita la racconta senza guardarla. In effetti, lo ha fatto: tutti i lunedì su Il Napolista, stagione 2015-16. Imperdibile, come i suoi libri: Futuro Semplice (ed. Lietocolle, 2010 e 2016) e Avremo cura (ed. Zona, 2014).

© Stefano Domenichini, 2016

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