STANZA 331
Mi sveglia il rumore di un’auto che passa sulla strada. La luce azzurra del mattino filtra attraverso le fessure degli scuri. Guardo il soffitto bianco e per un attimo non ricordo dove sono. Non riconosco questa stanza. Davanti al letto è appeso un quadro che mi scatena un panico incontrollato. Una donna orrenda, col viso senza lineamenti, seminuda, mi sta fissando. Poi, di colpo, ricordo, e un sorriso fa capolino sulla mia bocca. Giro la testa e la vedo. Mi sta sorridendo anche lei. Si avvicina, si accoccola contro di me e sento il suo odore. Sa di miele e cannella.
Al meeting sono nervoso. Trascorro gran parte del tempo odiando con fierezza tutti gli uomini in giacca e cravatta che mi stanno attorno. Fino a pochi giorni fa li consideravo “i miei colleghi”. Ora sono diventati degli insopportabili estranei.
Nella ventiquattrore ho poche scartoffie e una rosa di vetro avvolta in uno strato di cotone e carta velina. Non deve rompersi. Ho appoggiato il blocco degli appunti sul tavolo davanti a me. È rimasto immacolato per tutta la durata del convegno. Non ho ascoltato una sola parola di quelle pronunciate dai relatori. Nella mia mente non c’è spazio che per un unico pensiero e al primo coffee break sgattaiolo via alla chetichella, tuffandomi nella strada assolata con un ampio respiro di sollievo. Mi infilo in un intrico di stradine piene di negozi dalle vetrine colorate e mentre cammino rapido, una cascata di pensieri mi fa bollire la testa. Un evento imprevisto ha messo a nudo la crepa che da tempo si è formata dentro di me e di cui non mi ero reso conto. Mia moglie, il lavoro, i colleghi, la mia casa, tutto quello che mi è sembrato così importante sino a questo momento, contano poco o nulla. Camminare, lavorare, rispondere al telefono, qualunque gesto compiuto sino adesso assume una luce diversa. D’improvviso, mi sono accorto di essermi costruito una splendida prigione. E l’ho fatto con le mie mani. Ho realizzato davvero tante cose nella vita privata e nel lavoro, e avrei giurato che non mi mancasse nulla. Ma da alcune ore ho realizzato che niente di tutto ciò mi è mai davvero appartenuto, che non l’ho mai davvero sentito mio. Solo adesso capisco di non essermi mai davvero innamorato, di non aver saputo nemmeno, sino a poche ore fa, cosa volesse dire essere travolti dalla passione.
Io, pratico e razionale, non riesco a smettere di pensare a due occhi verdi che mi hanno sconvolto.
L’ho incontrata per caso in un bar. Ho sbattuto contro di lei mentre entravo per prendere un caffè e lei stava uscendo. Non l’avevo nemmeno guardata bene. Mi ero limitato a un: «Mi scusi» veloce. Poi lei ha parlato e il mondo ha smesso di muoversi. Una semplice frase: «Non c’è di che». Il suono della sua voce roca mi ha come fulminato e solo in quel momento l’ho guardata un faccia. Un viso da ragazzina, la bocca carnosa, il naso dritto. E due occhi verdi disarmanti.
Cammino svelto e l’odore del mare si insinua nelle mie narici. Faccio un ampio respiro. Arrivo al porto e mi guardo intorno. Le barche attraccate dondolano piano, dei gabbiani planano sull’acqua lanciando grida che sembrano risate. Non la vedo. L’appuntamento era per le tre. Do un’occhiata all’orologio. Non sono in ritardo e appena penso questo mi monta il panico: «Ci ha ripensato. Non è venuta». Percorro il muricciolo avanti e indietro. Da qui posso ammirare il colore del mare e i giochi che il sole fa sulle onde. Nelle aiuole ci sono rigogliosi cespugli di oleandro in fiore e l’aria è intrisa di profumi. “Non è venuta” continuo a ripetermi e mi sento ridicolo e infinitamente triste.
«Ciao. Scusa il ritardo.» Mi volto di scatto e lei è lì, trafelata e sorridente. «C’è un traffico terribile. Sul taxi mi sembrava di impazzire. Mi sono anche accorta di avere il cellulare scarico…»
Ora mi sento, se è possibile, anche più ridicolo perché è tale il sollievo nel vederla che mi metterei a urlare e non so cosa mi trattiene dal farlo. Credo un residuo di dignità.
Ci abbracciamo fortissimo, come due naufraghi nella tempesta.
«Che bello vederti!», dico, e il mio tono di voce deve suonarle strano, perché mi guarda negli occhi e domanda: «Tutto bene?»
«Tutto benissimo.»
«Cosa facciamo?»
Io vorrei andare a chiudermi con lei in una stanza per non uscire più sino alla fine del mondo, ma poi penso che mi prenderebbe per un maniaco, così le propongo una passeggiata sulla spiaggia.
Mi rendo conto che con lei, Sara (il suo nome… ma quanto è bello il suo nome?), il tempo assume un’altra dimensione: sembra perdere senso e dilatarsi all’infinito. Ci sediamo su degli scogli e restiamo lì, in silenzio, abbracciati, a guardare le onde rincorrersi e a respirare l’odore del vento.
Davanti a Sara mi sento come un bambino di fronte a un prestigiatore. È come se vivessi un eterno stupore. Ogni cosa, anche la più semplice come camminare a piedi nudi sulla sabbia, mi sembra nuova, mi dà un’emozione mai provata prima. Non mi serve pensare. Basta che apra la mia mente alla percezione di questo nuovo sentire. Così che faccio: non penso ma vivo, cosa che non ho mai fatto prima. Fino a che non ho conosciuto Sara (solo due settimane fa? Mi sembra un vita intera) è come se non avessi davvero vissuto.
Per giorni gli scrupoli mi hanno torturato. A tratti mi sono sentito uno stupido, un incosciente, un ingrato, un irresponsabile. La verità è che non potevo, non posso, fare a meno di sentirmi felice. Tutti cercano di farti credere che a quarant’anni hai già detto tutto quello che c’era da dire e fatto quello che c’era da fare. Cercano di convincerti che sei troppo vecchio per l’innamoramento, che una cosa così capita solo ai quindicenni, non a un uomo adulto con una famiglia e una posizione. Invece, basta un incontro casuale (ma sono davvero casuali certi incontri? Comincio a credere di no. Comincio a credere che noi ci predisponiamo a certi incontri, che qualcosa dentro di noi non smette mai di credere e sperare all’innamoramento da quindicenne) e la vita prende un altro senso. Tutti cercano di convincerti che le tappe importanti sono state raggiunte. Quel che è peggio è che tu stesso cerchi di convincerti di questo.
Invece, ora, mentre Sara cammina al mio fianco, silenziosa e sorridente, mi pare che ogni cosa abbia un profumo, un sapore, un’intensità differente.
«È strano essere qui.»
Lei mi guarda, senza smettere di camminare, e mi prende la mano. Un gesto semplice e sconvolgente. Quando è stata l’ultima volta che ho camminato mano nella mano con una donna? Non me lo ricordo nemmeno. Ho sempre pensato che certe manifestazioni d’affetto – tenersi per mano, scambiarsi un bacio mentre passeggi – fossero smancerie leziose, cose da adolescenti. E adesso sento il mio cuore battere come un tamburo impazzito, come se lo stessero percuotendo dieci mani.
Non c’è stata nessuna logica per cadere così in questa seduzione. È come se una forza enorme mi avesse trascinato dento a un gorgo. La sensazione è terrorizzante e meravigliosa. Non ho più punti di riferimento certi. Giro, giro, giro. E nel mezzo, nell’occhio del ciclone, c’è lei: Sara.
Questa giornata, questo sole, questo paesaggio, tutto ha una forza travolgente e la forza parte da lei, dalla sua calma, dal modo in cui mi osserva, come se mi conoscesse da sempre, come se sapesse cosa si agita in me.
Superiamo la spiaggia, ci arrampichiamo sulla scogliera, ridendo e scherzando come due ragazzini, e ci avviamo verso la collina, per visitare alcuni dei paesini arrampicati su di esse.
Ogni pochi passi ci fermiamo per baciarci, sfiorarci, guardarci negli occhi. Mi sento come se fossi nato solo pochi giorni fa. Ogni cosa mi risulta nuova, ogni emozione mi travolge.
«Voglio vivere con te», dico.
Lei si ferma di colpo e mi fissa. «Non sai niente di me.»
«So tutto quello che devo sapere.» Mentre pronuncio questa frase mi rendo conto che suona come una pazzia e che ha ragione lei: non sappiamo nulla l’uno dell’altra, a parte che io sono sposato e lei libera, conosciamo alcuni dati anagrafici e poco altro. Eppure, so di non essere mai stato più sicuro di così. Mai, in tutta la mia vita, perché mai, in tutta la mia vita, ho provato ciò che provo ora. Ciò che lei mi fa provare: una pace assoluta, una sicurezza totale, una comprensione profonda.
«E cosa sai?» mi chiede e un leggero sorriso le increspa le labbra. Un sorriso dolce.
«Che ci amiamo.» Quando lo dico mi sento come se qualcuno avesse tolto un peso enorme dallo stomaco. Per la prima volta mi sento libero. E leggero. Mi sento come qualcuno che sta facendo la sola cosa a cui abbia mai creduto.
«È come se ti avessi sempre cercato, senza saperlo. O forse ti cercavo senza credere che ti avrei incontrata davvero.»
Lei si stringe a me e non dice niente.
Riprendiamo a camminare, mano nella mano.
So che domani dovrò affrontare molte cose: mia moglie, gli amici, i colleghi, il mondo intero. Me stesso. Ma so anche che Sara è ciò che voglio. Lo so come non mi è mai capitato di sapere.
Lei non è solo il mio amore.
Lei mi fa sentire a casa per la prima volta in vita mia.
E non ci rinuncerò.
Il MoBa (Museum of Bad Art) esiste: https://www.keblog.it/museo-peggiori-opere-arte-moba-boston/
© Barbara Garlaschelli, 2018