Maremoti [3] di Maria Elena Poggi

Ragazza seduta sul letto, di spalle,, indossa una guepière azzura.

A-MARE

«Di sogni non si campa», mi sussurrava mia madre quando sorprendeva i miei occhi immoti ad abbracciare il mio amore: il mare.
Di sogni non si campa e meno ancora quando nasci su di una terra arida che uccide i suoi figli a botte di rassegnata disperazione.
Me ne sono andato per sottrarmi a un destino di fame, arance e sale; ma il mare, quello, me lo sono portato dentro. Un disegno a tinte cangianti, marchiato a fuoco nel mio DNA.
Cosa ci faccio io qui, sotto questo cielo troppo grigio, nel mezzo di questa aria che puzza di fretta e di asfalto, nel cuore di questa sacrilega cassa armonica di cemento e mattoni ove si perpetua l’assassinio del silenzio?
Qual è il senso del mio stare in questa landa monotona e piatta, così piatta che se spingo il mio sguardo lontano rischio che i miei occhi si smarriscano oltre la linea dell’orizzonte?
Il mio mare mi tracima dagli occhi, per colore e per salata consistenza. Occhi, retaggio di un sangue normanno, che aprono porte che presto vengono chiuse davanti al mio inequivocabile accento, troppo esotico a queste latitudini.
Cosa sono le mie ore se non un’estenuante partita a nascondino nella carezza umida della nebbia che ingoia i passanti e le vestigia medievali di questa città che mi ingrassa a solitudine?
Cos’è il mio tempo se non il rumore di passi rapidi sul selciato, lo sguardo basso ma attento alla successione dei numeri civici, rincorrendo la porta giusta fra i tanti spioncini?
Che cos’è cercare di esistere se non affondare nell’urgenza di soddisfare il desiderio, intima vergogna pulsante da nascondere a quel Dio in cui fingo di non credere?
Le mie mani, fra tante. Sono la prima parte di me, ad averti. Non è difficile: bastano cinquantamila lire e un’ora di tempo.
Le mie mani calde e la tua pelle estranea. Pago per la tua bocca, non per la tua anima. Un’ora, un’ora soltanto per affondare dentro te, annullarmi sulle tue coste.
Fa caldo in questa città che sembra esistere solo d’estate, quando il cielo color carta da zucchero è una cappa d’umidità e il sole allo zenit traccia, con implacabile ma equa cattiveria, i contorni di cose, ombre e anime. La mia, di anima, è divorata dalla solitudine e dalla nostalgia. Ho bisogno di smarrirmi nella tua ombra estranea; ti cerco, ospite inatteso, nella calura estiva dei borghi deserti; le cinquantamila serrate nel pugno, come la presa disperata di un naufrago attorno a un pezzo di legno marcio.
Arrivo, salgo le scale con un passo che rimbomba nel silenzio. Busso, tu apri senza chiedere, in silenzio. Uno sguardo, uno soltanto, senza una parola, senza un cenno. Hai gli occhi pesti di chi ha pianto a lungo. Guardo fisso dentro quei due specchi intensi e liquidi in cui si agitano correnti che parlano una lingua che conosco bene: sono piccoli mari interni irrequieti, ribelli, pieni di ombre e invalicabili solitudini.
Non abbassi lo sguardo, in quell’attimo in cui sei più nuda di quando giaci fra le mie braccia e io mi innamoro del tuo dolore, sulla soglia di una camera a ore.
Mi entri dentro e dilaghi come una febbre terzana, divorante e letale.
Cinquantamila lire si fanno pegno per il racconto di una storia, la tua. Pago per la tua voce, per la tua bocca che narra una vita, senza ordine o continuità.
Ti ho amata, ti ho avuta e ti ho persa. Ma questa è una vicenda il cui canto richiede una tassa di lacrime che non sono ancora pronto a versare.
«Di sogni non si campa», mi sussurra ora mia madre quando sorprende i miei occhi assenti ad abbracciare il mare e il ricordo di te.

© Maria Elena Poggi, 2016

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