Ciao Daniele,
io sono nata il 26 novembre 1965, tu il 27 novembre 1971. Sei vissuto qualche ora.
Tutto ciò che resta di te è una piccola tomba al cimitero Maggiore di Milano.
Ma sei stato mio fratello, anche se hai respirato solo per poco tempo.
Quando ero piccola, dicevo ai miei compagni delle elementari: “Mio fratello è morto”. Mi pareva che questo mi desse una qualche patente speciale, mi collocasse in una parte di mondo dove stavano quelli che avevano subìto una perdita inconsolabile e dovevano venir trattati con maggior rispetto. I miei compagni, però, se ne sono fregati e io ho smesso di dirlo.
Quando sei nato avevo non avevo capito cosa stesse accadendo. Ricordo in modo vago che mamma e papà mi avevano portato dalla nonna Angelica e poi rammento una telefonata furtiva fatta dalla nonna (o ricevuta?). Non ricordo parole, solo l’immagine della nonna che regge la cornetta del telefono e mi dà le spalle. Nient’altro.
Sei nato settimino. Fosse capitato oggi staresti benissimo, fosse capitato anche allora ma in un altro ospedale… Ho alcune amiche settimine: godono di ottima salute e sono super intelligenti. Invece, la mamma ha sofferto non so quante ore durante il travaglio e quando si sono decisi a intervenire, tu avevi già subito gravi lesioni al cervello e sei sopravvissuto poche ore.
Di te non resta nulla, a parte il nome e un sepolcro.
Non ho nemmeno ricordi della mamma con il pancione (eppure doveva averlo, era al settimo mese!); non ci sono foto di lei incinta; nessuno ha mai parlato di te, a parte non ricordo chi per dirmi, con molto tatto, che avrei dovuto avere un fratellino ma che però non ce l’aveva fatta.
Tutti le informazioni che ho sono il risultato di domande rivolte anni dopo a mia nonna, soprattutto. Su di te è calata subito una cappa di omertà impossibile da rompere. Non per vergogna o per chissà quale altro motivo. Ho percepito quel silenzio come una sorta di luogo sacro nel quale fosse doveroso non addentrarsi. Una zona di dolore che nessuno poteva, doveva e voleva violare.
Non mi risulta che papà sia mai andato al cimiero a visitare la tua tomba. Sia io che lui non amavamo andare al cimitero. Io non so nemmeno dove abbiano messo lui. E te. Non trovo consolatorie né doverose queste visite, e le evito.
La mamma, invece, veniva a trovarti. Non lo diceva a nessuno, ma so che lo faceva soprattutto quando era triste. Adesso che abita a Piacenza non so come viva questa cosa. Non va più a Milano, nemmeno a trovare i vivi. Io non mi sono mai offerta di accompagnarla.
Ogni tanto accenna a te, a quanti anni avresti adesso se… poi si interrompe. Papà, invece, non l’ha mai fatto, almeno non con me. Nessuna allusione, nessuna parola.
Tu sei come quel racconto attribuito a Hemingway: “In vendita scarpe di bambino mai usate”. Un racconto così semplice e atroce.
Ti definisci in mille sottrazioni: ciò che non sei stato. Non sei stato un bambino; non sei stato un adolescente, un ragazzo, un uomo; non sei andato a scuola, all’università; non hai trovato un lavoro, non ti sei innamorato; non ti sei sposato; non hai avuto figli; non sei ingrassato né dimagrito; non hai fatto vacanze; non hai né sciato né nuotato; non sei invecchiato; non hai mai mangiato né bevuto né riso. Forse hai pianto.
Non hai visto nulla del mondo: né cielo, né mare, né alberi, né stelle, né fiori, né auto, né biciclette, né montagne. Non hai sentito la pioggia sulle mani; la neve cadere silenziosa; la nebbia avvolgere le case e nascondere le persone; né il rumore del vento o quello del silenzio.
Non hai letto libri, scritto lettere, ascoltato musica, guardato film, ballato.
Il tuo essere venuto al mondo vivo ha fatto di te una persona cui era doveroso dare degna sepoltura. Ecco, l’unica cosa che hai avuto è stata una piccola bara.
Albert Camus, uno scrittore che amo molto e che tu non hai potuto leggere (e magari ti avrebbe pure fatto schifo. E se fosse stato così avremmo discusso di certo) scriveva: “In realtà, non c’è esperienza della morte. In senso proprio, non è sperimentato se non quello che è stato vissuto e reso cosciente”. Quindi tu non sai di essere morto, né di essere stato vivo.
Il tuo esistere ha sconvolto l’esistenza di poche persone per poi perdere i contorni rendendo il tutto sempre meno definito, sempre più nebuloso. Fino a scomparire.
Trascorrono anni senza che pensi a te, poi, d’improvviso, mi viene in mente che ho avuto un fratello, anche per poche ore, e mi domando come saresti stato. Di sicuro alto e moro, forse avresti ereditato gli occhi grigi della nonna Angelica. E il naso? Sarebbe stato quello aquilino dei Garlaschelli?
Saremmo andati d’accordo? Avresti avuto il senso dell’umorismo di papà? O l’eleganza della mamma? Avresti potuto evitare il mio tuffo in mare, magari giocando con me a pallavolo quel giorno? O se fosse accaduto lo stesso, mi saresti stato vicino? Saresti fuggito come tanti davanti a un dolore che non avresti saputo gestire? Stare accanto a una sorella disabile ti avrebbe spinto ad allontanarti da una responsabilità che ti avrebbe limitato nella libertà?
E io? Sarei stata felice di avere un fratello? O ne sarei stata gelosa? Mamma e papà mi avrebbero amata tanto quanto mi hanno amata? Saresti stato il preferito dell’uno o dell’altra? Avremmo giocato insieme? Ti avrei aiutato a studiare o avrei cercato di sbarazzarmi di te per uscire con le amiche? Saremmo stati complici? Ti avrei amato? Ci saremmo amati?
Io credo di sì. E ci saremmo anche detestati e avremmo litigato e poi fatto pace e abbracciati.
Tu sei mille sottrazioni e mille domande che non avranno mai risposta, come questa lettera.
Ho sempre amato il tuo nome: Daniele. Il primo ragazzino di cui mi sono innamorata si chiamava così, Daniele.
Tu sei esistito solo per noi famigliari.
In effetti, non sei quasi esistito.
Eppure questa lettera fatta di niente, costruita su sottrazioni e domande senza risposte, che si appoggia sul silenzio, è per te fratello.
È per te, Daniele Garlaschelli.
Barbara
©Barbara Garlaschelli, 2018