Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
romore
di sorta
che forse…
che forse
sia morta?
Orrore
Ah! No.
Rieccola,
ancora
tossisce
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
Che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
La fontana malata di Aldo Palazzeschi
***
La notte lavora per sottrazione: di oggetti, persone, suoni. La piazza trafficata di qualche ora fa, adesso è un rettangolo illuminato da lampioni stanchi. I semafori pulsano a intermittenza, le macchine dormono fra righe blu nella sospensione dei parchimetri e gli occhi delle finestre si sono chiusi tutti, uno dopo l’altro. Restano spalancati quelli del civico 27 – piano quarto – ufficio dell’architetto Ippoliti. Lì le luci non le spengono mai. Habel lo sa.
“Ti devono andare proprio bene le cose, architetto, se non badi alle bollette” pensa tastandosi le tasche in cerca di una Marlboro. Ha voglia di fumare, ma aspetta. È quasi ora.
Quelli che non spengono le luci negli uffici non li capisce. Paura dei ladri? Sorride. Ci farà un giro dall’architetto, prima o poi. Ora deve pensare alla tabaccheria. Un lavoro pulito. A lui spetta mettere fuori uso le telecamere e disattivare la sirena dell’allarme. Al resto penseranno gli altri: una macchina rubata come ariete e altri due che, rapidi, sanno dove mettere le mani: il cassetto delle ricariche e dei gratta e vinci e le stecche di sigarette. «Sì architetto, ci vediamo anche nel buio».
Sono le tre e ventitré. L’ora in cui chi può dorme, l’ora dei ladri. Nella piazza resta solo il suono di una brutta fontana in cemento: clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, chchch… L’acqua esce con fatica, strozzata nel tubo, sofferente. Sulla superficie nera galleggiano due bottigliette di Coca-Cola. Quel brutto abbeveratoio grigio non può che essere opera dell’architetto Ippoliti. Habel cerca di non farci caso, ma il suono della fontana lo mette a disagio, sembra il lamento di un animale ferito. “Fatela finire, mi uccide!” scaccia il pensiero perché è scaramantico, ma la mente torna al giorno dell’incidente di sua sorella Vittoria, ai lamenti che hanno preso il posto delle parole, alla paralisi che inchioda il suo giovane corpo. “Andate, mettete qualcosa per farla finire, magari… magari morire.”
Si odia per quei pensieri, per quel suono che lo fa impazzire. Prova a concentrarsi di nuovo. Tre e ventiquattro. Manda un WhatsApp al rumeno: “T-DOWN”, telecamere giù. Doppia spunta. Spunta blu. Ok. Tre e venticinque: ha quattro minuti per arrampicarsi fino alla sirena, sganciarla e liberarsene. Un gioco da ragazzi per chi è cresciuto in un circo. Habel è piccolo e agile, figlio del mago Bogdan e di Dalia la contorsionista. Qualcosa ha imparato da entrambi: a dormire in un trolley e a scardinare qualsiasi ingranaggio: manette, lucchetti, serrature. Anche aggeggi più complicati, volendo. Ad Habel piace aprire, guardare dentro le cose, aggiustarle.
Col circo ha chiuso però, non ne vuole più sapere dopo la caduta senza rete di Vittoria, che nessuno potrà più aggiustare. Forse per questo prova piacere nella precisione, che la sua vita ha perso da troppo tempo. Gli sarebbe piaciuto fare il meccanico; l’orologiaio magari. Sarebbe stato il massimo. Peccato che gli zingari non vadano fortissimo in Svizzera.
Ora basta pensare. Si arrampica: un balzo dal vaso di una siepe mezza morta, aggancia il bordo della tenda parasole della tabaccheria, raggiunge il balcone del primo piano. In quaranta secondi isola la sirena e la stacca dal muro: «Houdini suca!».
Tre e ventinove: ha fatto, è di nuovo a terra, fra un minuto arriveranno gli altri. Getta la sirena nella fontana. Splash! Poi ancora clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, chchch. Madonna, Gesù come si fa? Non si può sentire. “Fatela finire, mi uccide quel suono!”
Tre e trenta: un boato scuote la piazza. La vecchia golf in retro ha piegato la porta della tabaccheria: frantumi ovunque, rumore di persiane che sbattono. Habel è nella fontana, l’acqua fino alle cosce. Ricariche telefoniche, gratta e vinci e sigarette stanno già correndo lontano. Tre e trentatré. C’è una lattina di birra accartocciata nella bocca della fontana. Che bastardi! Habel è fradicio. La poca acqua che esce gli spruzza addosso: clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, chchch. Se solo avesse una lama più lunga, se solo si fosse portato tutti i ferri. Spinge le dita magre nella bocca dell’animale ferito che gliele morde senza pietà.
“Madonna! Gesù! Non più, non più! Mia povera fontana, col male che hai, finisci vedrai, che uccidi me pure”.
Alla fine ce la fa, zuppo fino all’osso, con la mano destra insanguinata. Sospira: l’acqua è tornata a scorrere lieve, precisa, come dev’essere, illuminata dalla luce blu della volante notturna.
©Anna Martinenghi, 2020
© Foto di Leonardo Cassi, Dropping by