Il poeta e Belzebù

Datemi una bestemmia. Io voglio leggere una bestemmia. Una bestemmia, un urlo, una ferita che non guarisce. Io non voglio leggere libri. I libri con le storielle, con le tramine interessanti, i libri raffinati, perfettini. I libri ben stampati per un lettore ammodo. Io voglio leggere Belzebù, non un libro. E sì, vabbè, Kafka diceva quel che diceva: “Un libro dev’essere una piccozza per rompere il mare di ghiaccio che c’è dentro di noi”. E certo aveva ragione. Ma io voglio essere io. Voglio dire la mia. Sono stufo dei libri. Libri fatti di libri, dico. Libri fatti parole.

Io voglio un libro fatto di arnesi da scasso. Un libro pieno di male. Di male, sì, di male. Non c’è posto per il bene nella letteratura. Se avesse scritto i “Fiori del Bene”, di Baudelaire non se ne saprebbe più niente. Figuriamoci. I suoi sono, invece, i “Fleurs de Mal” più belli ch’io abbia mai raccolto.

Il libro dev’essere un’amante perversa, non una mogliettina fedele. Non è un cagnolino da compagnia, ma un Pit Bull che t’insegue di notte in un vicolo buio. Il libro non è quella cosa, quell’oggetto che i ragionieri tengono sul comodino e che serve loro a prendere sonno accanto al bicchiere d’acqua. Il libro è un bicchiere di veleno. Non è un comodo materasso, ma il letto di Procuste. Dev’essere “Come una bestia feroce”. Deve raccontare, o inventare, o suscitare, la verità, una verità, qualunque verità.
Datemi una verità inventata purché sia vera.

Il libro dev’essere il mio avversario. Il mio Satana. Dev’essere un’istigazione al reato, una rivoluzione, una vendetta. Non mi deve dare pace. Non deve darmi una mano, ma deve spingermi nelle sabbie mobili. Deve farmi affogare. Io voglio un verso che mi uccida. Un racconto che mi trafigga. Un’ode omicida. Voglio una corona di spine in forma di parole.

© Davide Marchetta

Condividi: