Il gabbiano vola sull’isola di Sachalin

Alla fine del 1889, alla vigilia dei suoi trent’anni, Anton Pavlovic Cechov decide di rinviare il proprio contributo al rinnovamento delle scene a data da destinarsi, seguendo così il brutale consiglio dell’attore Aleksandr Lensky, che avrebbe dovuto essere il protagonista nel Lesij mai andato in scena a San Pietroburgo: “Vi dico una cosa: scrivete racconti. Le vostre qualità di drammaturgo sono troppo farraginose.”Per molto tempo Cechov scriverà esclusivamente racconti, ma non solo: il 21 aprile del 1890 lo scrittore partirà per l’Isola di Sachalin, in Siberia, per visitare la colonia penale. Come dice egli stesso a Suvorin, suo amico ed editore: “A parte l’Australia in passato e la Caienna ai giorni nostri, Sachalin è l’unico luogo in cui sia possibile studiare una colonizzazione compiuta da criminali detenuti. Sachalin è un inconcepibile luogo di dolore, che soltanto l’uomo può sopportare.”

Potrebbe sembrare una fuga dalle delusioni teatrali, ma se si considera che il viaggio di sola andata di diecimila chilometri, di cui ben quattromila in carrozza, dura fino al 9 luglio, ci si deve ricredere. Cechov parte, probabilmente per cercare qualcosa: “cose di poco conto” dice nella medesima lettera a Suvorin; in realtà Cechov, come il professore del racconto Una storia noiosa, cerca un senso profondo alla propria esistenza, cerca un “qualcosa” che solo la sofferenza umana può mostrargli.

Cechov è un uomo di trent’anni che cerca di trovare e definire una propria fede sociale e culturale, oltre che religiosa, senza per altro venire meno a stesso e alle proprie convinzioni, maturate soprattutto nello svolgimento della professione medica, “sua legittima consorte” come la definiva, al contrario della letteratura “sua amante”. Ed è proprio il dottor Cechov che parte per la spedizione in Siberia, portando con sé lo scrittore Cechov carico penne e taccuini e dubbi. E se il dottore si mette in viaggio per raccogliere dati, per acquisire nuove conoscenze, lo scrittore va in Siberia per allontanare da sé la critica mossagli dai recensori più radicali di non introdurre messaggi sociali nei suoi lavori. Anton Pavlovic Cechov rimarrà lontano da Mosca per un anno; tornerà la primavera successiva, dopo aver rischiato il congelamento degli arti inferiori.

Se facciamo un salto in avanti di quattro anni, nell’ottobre del 1895, e immaginiamo di trovarci in una dacia a Melichovo, non lontano da Mosca, potremmo vedere un uomo chino sulla scrivania intento a scrivere, le spalle incurvate, una tosse persistente. Se non ci avviciniamo, non riusciamo a riconoscere che è Anton Pavlovic, un po’ invecchiato, i capelli più corti, la barba un po’ più lunga. Cosa sta scrivendo? Sembra una pièce, forse una nuova commedia. Evidentemente l’evento è degno di nota, infatti Anton Pavlovic informa subito l’amico Suvorin: “immaginatevi un po’, sto scrivendo un lavoro teatrale, che terminerò anche, probabilmente, non prima della fine di novembre. Lo scrivo non senza piacere, sebbene pecchi terribilmente contro le convenzioni sceniche. È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un paesaggio (veduta sul lago); molti discorsi sulla letteratura, poca azione, tonnellate d’amore.”

Il gabbiano sta cominciando a librarsi in volo e se alziamo gli occhi al cielo, lo possiamo ancora scorgere sopra di noi…

©Matteo Tarasco

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