Fuori stagione

Uno dei ragazzi era appoggiato al muro. Fumava una sigaretta e aspirava a fondo. La giacca nera gli smagriva il busto e le braccia.

I mattoni della chiesa, e l’aria cupa, portarono Luca al passato. Ai video dei gruppi di Manchester, ai loro volti pallidi e alla pioggia. Il cielo terso era migrato altrove. Il sole in faccia avrebbe reso quei giovani spettrali. Per celebrare un morto bisognava apparire più vivi che mai. Lividi e bianchicci, ma vivi. E lo sapevano, Luca ne era convinto, sia lui sia i ragazzi che parlavano sottovoce ai piedi degli scalini.

Indossavano tutti abiti scuri e cravatte sottili. Sembravano usciti da un film di Tarantino o da un video musicale degli anni Ottanta. Qualcuno rideva, sommesso. Qualcun altro indicava un punto oltre la strada. Era probabile stessero discutendo sul funerale di un amico e che ridessero ricordando. Era così che andava. Era successo anche a lui. Un giorno, di vent’anni prima, Samu gli aveva telefonato. Avrebbe voluto
fare un giro sul lungo fiume, ma lui aveva un esame la mattina dopo.

«Non importa» gli aveva risposto. «Ci andrò da solo».

Chino sul manuale di storia, Luca aveva immaginato Samu sporgersi oltre la balaustra per osservare le anatre e i germani reali. Aveva quasi percepito l’aria che saliva dal fiume e svaporava sul volto del suo migliore amico. I capelli mossi sulla fronte. A lui piacevano, quei ricci. Nell’aria nebbiosa della città
fluviale, sfarinavano come ciuffi di cotone grezzo. Che non ci avesse capito niente, non gli era parso rilevante. Lui non era parte del suo disegno di morte. Che valore avrebbe avuto la sua presenza? Avrebbe forse impedito a Samu di scavalcare la balaustra e gettarsi nell’acqua melmosa del fiume? Che differenza avrebbe fatto, di fronte all’evidenza del salto e dello scoscio, l’inutile balbettio di un ragazzo idiota? Un ragazzo che vedeva soltanto l’aula magna del giorno dopo e il professore di storia medievale con la sua giacca di tweed? O ancora la media del ventotto, la pasta con gli zucchini già fredda e la madre che gli diceva bravo?

Mentre Samu stava affogando, lui a che cosa aveva pensato? Al maglione verde acido di Valeria o a qualche film dell’America latina. Di Samu, lui, non sapeva un cazzo. All’università ci si accigliava per darsi un tono. S’indossava la dolcevita, si guardavano i film degli anni Quaranta e si ballavano le canzoni tristi negli scantinati del centro. Che cosa aveva a che fare tutto quello con la morte? Intanto, il ragazzo di prima ha schiacciato il mozzicone contro il muro della chiesa. È sceso gli scalini di corsa e ha annusato l’aria. Aveva perso l’espressione svagata. Si è guardato intorno e si è stretto nelle spalle. Ha raggiunto il gruppo di amici e due di loro hanno inclinato il capo e alzato il mento all’unisono.

Luca ha creduto stessero ridendo ancora, nello stesso modo cauto di prima.

Erano tutti magri e con le facce lisce. Entrando in chiesa, lo sapeva, avrebbero creduto che il loro amico si trovasse altrove. Che la bara, i fiori e la voce monotona del prete fossero una rappresentazione obbligata di una vicenda a loro estranea. Avrebbero pensato alla morte come a un riverbero che sapeva di cera e acqua grassa. Nella chiesa, di costruzione recente, avrebbero strofinato le caviglie una contro l’altra e avvertito il freddo fuori stagione.

La morte non era fatta di quelle cose. Il ragazzo che fumava, o un altro forse, lo avrebbe capito durante un giorno qualunque della settimana. Quando passando di fronte al bar del corso, vicino all’università, sarebbe rimasto fuori. Quando avrebbe ricordato il sentore del vino o del sugo, o i capelli dell’amico sul piatto. A quel punto avrebbe percepito la morte. E il suo palesarsi lo avrebbe reso riluttante, con un piede fermo sulla soglia.

Senza capire il perché, Luca si era avvicinato al gruppo di ragazzi. Era curioso di sentirli. Ha sussultato quando il ragazzo, che fumava, ha detto: «Ragazzi, ho fame, cazzo!».
Un altro del gruppo, uno con i capelli cortissimi e gli occhi slavati, ha congiunto le dita dando loro la forma di un becco. Ha agitato la mano all’altezza del petto e ha ribattuto con voce stridula: «Guarda che sei tu che ti sei voluto fermare. Pure vicino a una chiesa. Che paranoie!».

L’altro ha tenuto lo sguardo basso. Luca gli intravedeva una smorfia sul volto.

«Avevo bisogno di un momento per pensare a una cosa».
«Sì» ha sospirato l’atro. «Che pesantezza, Ale. Abbiamo solo mezz’ora di pausa e poi dobbiamo tornare in agenzia».
Ale lo ha fissato con intensità e ha replicato «Ci avete mai pensato? Più che agenti immobiliari, sembriamo dei becchini».
Quello con gli occhi slavati ha alzato le spalle, si è voltato e ha lanciato un’occhiata alla chiesa con i mattoni in vista.
«Che cazzata!» ha replicato ridendo.

Ale è avanzato di un passo e senza guardare nessuno ha detto: «Beh, vendono case anche i becchini, se ci pensate. Le bare sono le abitazioni dei morti».

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