Effetti collaterali

Aveva affrontato l’ultimo anno cercando di resistere a ogni sprangata, rialzandosi nel minor tempo possibile per essere pronta a ricevere il successivo, molleggiando sulle punte, adattando ogni parte del suo corpo e della sua mente, con l’unico obbiettivo di non rompersi. Continuava a perdere parti di sé, letteralmente pezzi del viso che cadevano nel lavandino ogni mattino o giacevano sul cuscino e lei non poteva fare altro che sbatterli via, come qualcosa alla quale non tieni più, apparentemente senza il rispetto che dovresti provare per qualcosa che ti dice chi sei. Le sopracciglia sempre più rade, le ciglia che si arrendevano e cadevano sul campo di battaglia come soldatini che ci avevano provato ma non ce l’avevano fatta, lasciando palpebre nude e gonfie, sventrate come colline sulle quali si era svolta una battaglia feroce.
Giorno dopo giorno perdeva la percezione di sé, guardava un’estranea riflessa ovunque, la fissava, la osservava con la morbosità voyeuristica di una squilibrata, subendo il dolore al quale non sapeva sottrarsi assistendo a un gran brutto spettacolo e quello spettacolo era proprio lei. Povera bestiola.
Brava lei che aveva sopportato i momenti brutti senza chiedere mai pietà, senza chiedere agli aguzzini che la tormentavano se per favore potessero regalarle una tregua o implorare quello scherzo della natura che si portava dentro di andare a infestare qualcun altro. Un universo di possibilità inutilizzato, che spreco.
Che brava dicevano tutti, com’è forte! E le raccontavano i propri guai, si lamentavano degli acciacchi, si disperavano per quei problemi insormontabili, roba da bifolchi comunque che le dee come lei potevano comprendere ma non soffrire, perché lei era proprio su un altro pianeta, che forte, che brava.
Quel giorno prese una decisione o quella decisione prese lei. Decise di smettere di parlare.
Naturalmente non avrebbero fatto lo stesso tutti i problematici esseri umani che la circondavano ma lei aveva chiuso, basta così, non avrebbe più detto nulla. Mi passi l’acqua? Bastava indicarla. Sei d’accordo, domani si va a comprare questa cosa? Annuisci o scuoti la testa. Ho questo problema, cosa devo fare? Alzata di spalle.
Si sorprese di quanto fosse facile sostituire la comunicazione verbale e questo le confermò il fatto di essere per gli altri una specie di manufatto, una statua da portare in processione, alla quale non si
rivolge parola ma solo confessioni dal profondo del cuore che non esigono risposta.

Si dava per scontato che stesse bene, brava lei e dava anche un po’ fastidio doversi ricordare che è buona educazione ogni tanto chiedere a quelle come lei “come va?”, tanto si vedeva che stava bene. Bastava un cenno di assenso con la testa per rispondere “tutto bene, grazie, tu? I tuoi problemi? Le tue preoccupazioni? Ma ti prego raccontami tutto e non lesinare dettagli che poi sono il mio cibo preferito, appetitosissimi, ho giusto fame, dai, rovesciami addosso tutto, che mi ci immergo con avidità”.
Quella decisione aveva cambiato la vita solo a lei, in effetti. Le persone che la circondavano continuarono a provare disagio per ciò che ella si portava dentro, dovevano ricordarsi di informarsi sul suo umore anche se lo sapevano benissimo che stava una favola, brava lei, pur tuttavia si deve fare per educazione. Dovevano fare sempre i conti col mistero di quella anomalia che poteva crescere anche dentro di loro e alla gente non piace essere consapevole di essere in pericolo.

Corrono ai ripari? Solitamente no, non ci vogliono pensare e quindi sarebbero più felici se potessero impedirti di essere un promemoria costante del rischio al quale si espongono. Dunque, cosa era cambiato dopo la decisione di smettere di parlare? Aveva indubbiamente limitato i danni. Non intendeva più
permettere che qualcuno le ricordasse quanto potesse essere difettosa, nata sbagliata con un’ingenuità indomabile e impossibile da correggere, sempre utile a metterla nei guai perché solitamente le
brave persone sono urbane, educate a dire ciò che è bene, a farti gli auguri per compleanni ai quali non pensi oppure onomastici che non conoscevi. Lei era selvatica, con tanti chilometri di parole che le
intasavano la testa e a volte le incasinavano i pensieri, portandola a dire la cosa sbagliata.
Prendiamo quel giorno al bar, quando si era preoccupata per la deliziosa, carissima conoscente che ogni mattina le faceva un caffè speciale, ricordandosi sempre come le piaceva. Quelle due chiacchiere veloci che non mancavano mai, le risate sui luoghi comuni. Da anni quel caffè era occasione di gioia. Poi un giorno lei si accorse che la sua simpatica barista aveva un aspetto stanco, occhi spenti, forse qualche preoccupazione e glielo disse, così, come solo una forasta e maleducata cliente può fare: «ti vedo stanca stamattina, tutto bene?»
Dopo un momento di esitazione, ella aveva sgranato gli occhi per una frazione di secondo e accennato un sorriso beffardo, dopo di che si era presa pochi istanti per partorire una risposta adeguata all’onta subita e aveva fatto partire lo sparo: «Eh cara mia, stamattina ho già fatto una lavatrice, steso i panni, preparato il pranzo per dopo, portato il piccolo a scuola», sbuffo, «mi piacerebbe pure a me alzarmi tranquilla, fare colazione, andare a fare una corsa, una bella doccia con calma e poi venire a farmi un
caffè!»
La nostra inadeguata eroina era rimasta colpita da quella risposta ma saggiamente si era premurata di sorridere, come se quella sequela di rimproveri sottesi fosse stata una barzelletta, invece di rispondere «Eh cara mia, io invece mi alzo col cancro, faccio colazione col cancro, poi una corsa leggera che dopo due minuti mi fa sentire una merda ma devo farlo lo stesso per impedire al mio corpo di arrendersi, virgola, al cancro, virgola, e poi vengo a prendermi il caffè, sempre col cancro.»
Quindi il silenzio era sempre la scelta giusta, tanto per non rischiare di turbare la fragile emotività di chi la circondava.
Ma da quando aveva scelto il silenzio lei non si sentiva serena, forse era il caso di dire ancora qualcosa? Si poteva concedere il lusso di interrompere quel piano terapeutico? Perché il giorno in cui si sentì così sopraffatta da smettere di parlare sapeva di aver ricevuto un torto, si era sentita manipolata ed era una cosa diversa da quella perenne sensazione di inadeguatezza nella quale costantemente galleggiava.
Si decise a rimediare a quel torto subito, pianificò l’azione con la risolutezza di un gatto che rincorre la sua preda, immaginò l’espressione della dottoressa mentre prendeva consapevolezza di quella situazione ingiusta e visualizzò la sua stessa voce mentre le usciva dalla bocca, ferma e rotonda, una vera ispirazione.
“Dottoressa, ho veramente bisogno che mi dedichi alcuni minuti perché devo chiarire alcune cose che mi stanno creando un enorme disagio. Io non sono quel tipo di paziente. Quello che immaginate voi medici, quello al quale vi riferite idealmente quando vi riunite per studiare un caso, condividere esperienze, insegnare agli specializzandi.
Al signor Rossi faremo capire che sappiamo esattamente cosa stiamo facendo, non possiamo e non dobbiamo fare promesse, siamo scienziati non amichette del cuore. Il signor Rossi vorrà sapere quali saranno gli effetti collaterali del suo protocollo ma noi sappiamo che non vuole davvero conoscere tali informazioni, lui non ne è consapevole ma noi sappiamo che lui non vuole davvero sapere, altrimenti si sentirebbe sopraffatto e quindi gli diremo solo che per qualunque problema si verificasse ci può contattare. In ospedale però, perché se diamo un numero di cellulare a un paziente questo ci chiamerà a qualunque ora: dottore ho fatto il caffè come al solito, tutto proprio come sempre, ma lo sento insolitamente amaro, che faccio? Muoio? Dottore ho parlato per due ore con mia zia Anna, ha voluto sapere tutto del mio tumore e mi ha fatto gli auguri di pronta guarigione, però zia Anna è morta da vent’anni, che faccio? Muoio? Ecco, bisogna rendere difficile la comunicazione col paziente, dobbiamo fargli capire che siamo sempre a disposizione, ma qui, in ospedale o al massimo gli si può lasciare un indirizzo mail al quale risponderemo sporadicamente. Il signor Rossi riscontra un effetto collaterale piuttosto raro e di scarsa importanza che lui però non riesce ad accettare? Negate, girateci intorno, distraetelo, altrimenti si spaventa. Il paziente va messo in una condizione tale da non pensare a ciò che potrebbe patire, altrimenti si fissa e resta suggestionato. Il signor Rossi deve stare su di morale e affrontare la cura con ottimismo quindi per non spaventarlo, dite il meno possibile.
Ecco.
Dottoressa, capisco le buone intenzioni ma io non sono il signor Rossi, sono la signora Iridella e sono una persona molto complessa. Devo sapere cosa mi succede, devo concentrarmi sullo scenario peggiore che si possa ipotizzare e capire come affrontarlo, perché è questo che mi fa sentire forte, l’idea di non trovarmi nuda difronte a un problema, perché io sono una che dorme vestita nell’eventualità che un terremoto mi spinga fuori casa di notte. Quando le ho raccontato che mi stava cadendo di nuovo la faccia e volevo informazioni, avevo bisogno di sapere se i peli che caratterizzano il mio volto, che trasmettono agli altri le mie espressioni e mi presentano al mondo come un essere umano e non un venusiano, sarebbero caduti tutti o solo in parte, se sarebbero ricresciuti, se avrei potuto intervenire per arrestare quel suicidio di massa.

Avevo bisogno di sapere se mi sarei più svegliata al mattino toccandomi la faccia col terrore che le sopracciglia fossero andate tutte, se avrei più dovuto di nuovo passare ore a disegnare figure
geometriche sugli occhi che facessero pensare all’arcata sopraccigliare che non c’è più. Ci sarebbe stato ancora il sudore e l’ansia? L’orrore di sbagliare e ritrovarsi come Pennywise per poi urlare di rabbia e ricominciare tutto da capo?
Le ho spiegato che da qualche giorno ciglia e sopracciglia avevano ricominciato a diradarsi come successe durante la chemioterapia e lei mi ha risposto che le vedeva rigogliose. Rigogliose, santiddio! Le
ho spiegato che le ho viste cadere e lei ha insistito sul fatto che dopotutto quei peli sono sempre un po’ meno folti da adulti rispetto a com’erano in gioventù. Le ho ribadito, quasi mi veniva da piangere, che le ho viste sul batuffolo dello struccante, stavano proprio cadendo e lei ha cercato di distrarmi magnificando la mia capigliatura leonina. Ho ripetuto che davvero prima era tutto ricresciuto magnificamente e adesso i peli stavano cadendo di nuovo e lei mi ha detto che sono solo molto attenta a questo aspetto, mi guardo con troppo attenzione.
Ho taciuto perché cosa potevo ancora dire? E questo mi ha fatto sentire stupida.
Ho accettato di sentirmi dire che ho avuto solo un’impressione perché sono troppo concentrata sulla ricrescita dei miei peli e questo è stato un torto che ho fatto a me stessa. Quindi mi sono sentita stupida e pure una cacasotto.
Dottoressa io non riesco ad affrontare una cosa enorme che potrebbe uccidermi se cercate di non farmi pensare a ciò che a voi sembra piccolo, immagino con l’intento di alleggerirmi da pensieri per voi inutili, ma io ho bisogno di abbracciare tutto ciò che ho e tenermelo stretto. Se è fatale che perda di nuovo la faccia, lo devo sapere adesso perché se mi viene portata via di notte, da un ladro di fisionomie, io mi sveglierò e impazzirò. La prego, mi guardi e mi dica cosa succederà a questi peli che mi sono rimasti perché posso accettare che questo male non sia guaribile ma non posso vivere sentendomi stupida.”

Era pronta e si complimentò con sé stessa per l’efficacia del discorso. Prese un appuntamento.
Non ci andò.
Scrisse un racconto breve.

©Ale Ortica

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