IL VECCHIO ALBERGO DAVANTI ALLE FINESTRE
C’è un vecchio albergo davanti alle finestre del mio soggiorno: chiuso da tanti mesi, arrembato da grumi di vegetazione ormai incolta che un tempo fu aiuole e siepi al margine del sentiero lastricato dell’ingresso, ha la foggia brutta del quartiere anni Sessanta. E’ un cubo lugubre tinto di marrone scuro, con le finestre chiuse e qualche tenda tirata a metà. Sembra che aspetti qualcuno che non arriva mai. Nessuno si è preoccupato di togliere le antenne paraboliche sul tetto piatto, a scatola vuota.
I tassisti conoscono la zona perché c’è l’albergo: quando indico l’indirizzo ancora chiedono se debba andare lì.
– No, ormai è chiuso. Vado alle residenze.
– Ah, chiuso? Come mai?
– Qualcuno dice che l’abbiano comprato i cinesi, ma sembra fallito. Nessuno se ne occupa più.
Le frasi si ripetono identiche: preludono a due o tre sospiri e a Milano che nonostante Expo è comprata dagli stranieri, e quanti guai ha fatto S.L. con le sue speculazioni e i fallimenti in tutta la zona Sud, e chissà dove andremo a finire. Ogni volta rimugino che sia davvero strano che i pettegolezzi sulle persone corrano veloci come lampi e quelli sulle cose invece no: come si fa a non avere ancora recepito che l’hotel è chiuso, finito, andato, irrimediabilmente ingurgitato dallo sparuto giardino che una volta gli donava un pizzico di allegria?
Eppure aspetto questo momento ogni giorno, e lo guardo: osservo l’albergo perché diventa lo spettacolo assoluto dell’energia, il miracolo della fisica. Il sole tramonta lì: scende pallido e marezza le nuvole o il cielo turchese (sì, un cielo turchese esiste anche a Milano) per tuffarsi oltre la pianura confusa con il diramarsi della tangenziale ovest. Piano, va giù oltre un albero vecchio e piegato che malamente vorrebbe nasconderlo e si fa più grande, e rosso, e giallo scuro. Finché si riflette sugli occhi ciechi dell’albergo: ogni singola finestra esplode, riflette l’oro carnale del tramonto e la scatola triste diventa un lingotto magico, il tesoro di Montecristo, l’improvviso materializzarsi dell’incanto. Il cubo marrone si fa specchio per il morire del sole nell’ultima performance. E il cuore si frantuma di stupore.
Ho imparato molto, in questo pezzo della vita. Ho imparato le parole roboanti dell’amore che altro non sono che istanti fuggevoli, la profondità del mutare energia e creare la propria via, la pace interiore che non dipende da chi abbiamo intorno, il rispetto per l’altrui cammino senza interferenze. Ma ho scoperto anche che da un albergo buttato lì e fallito, con le storie ormai mute e le camere a marcire senza una carezza, posso ricevere il massimo della gioia. E’ nuda, essenziale, scava l’anima. Basta che mi accorga: il sole, andando altrove, firma il giorno per regalarlo a chi lo sa ricevere.
© MariaGiovanna Luini, 2017