Scrivere è anche lentezza. Nel furore del silenzio.
Scrivere è anche lentezza. Sì, perfino per me: lo diventa a tratti, quando lascio che la mente si sciolga in un ottundimento molle, tiepido, soffuso. Come ora, qui, in un pomeriggio bianco di neve bianca e memorie bianche contro un cielo lattiginoso dentro un respiro incrostato di pigrizia. E mani bisognose di scrivere scavando rivoli nel cuore.
Ho sempre avuto una scrittura densa, caotica ma organizzata, tortuosa e limpida, bulimica, fulminea. Noto gli occhi spalancati e la domanda segreta che le vibrazioni intuiscono: “Ma come fa? Forse tira via in fretta, uno scrittore dovrebbe creare lento. Anni, ecco, dovrebbe impiegare anni. Eh, certo, è medico quindi non ha tempo: sempre detto io, uno deve essere solo scrittore e non fare altro”. Invece no, invece si può: rido quando gli augusti cattedratici della letteratura dichiarano che non puoi definirti scrittore se non sei “solo” quello. L’insicurezza e l’invidia usano sentieri bizzarri.
Sono scrittore, sono medico e lo sono in pieno. In entrambe la professioni, in entrambi i bisogni. E scrivere veloce non ha una relazione con la mia laurea in medicina. Senza una pipa e con meno amanti (almeno fino a qui) seguo il cammino di Simenon e preparo i miei libri con qualche settimana di ginnastica creativa e una successiva clausura: non ci sono, non esisto, non crediate di chiamarmi o morire o avere bisogno di me perché la mia porta è chiusa. Devo scrivere, lo chiede il senso straziante di un’ansia che preannuncia e accompagna l’idea primigenia, il nucleo di origine di ogni libro. L’unica eccezione è il bisogno dei pazienti, ma per quello esiste uno scompartimento preciso e vispo e blindato del mio cuore che fa sì che non smetta mai di essere pronta . Nessuno dei libri che scrivo ha mai pianto per questo, l’amore e la cura non disturbano le pagine che si accumulano frenetiche.
Per me quando un libro nasce lo fa con furore: ha bisogno di uscire dal magma indistinto e perfetto dell’anima, deve plasmarsi occupando ogni ora ogni istante ogni rivolo minuscolo di pensiero; così sono nati tutti i miei libri, addensati come tempeste in un cielo che per giorni si faceva nero e viola e rosso e torbido e fiammeggiante, senza che esistesse altro. Lo stupore degli editori e della mia agente qualche volta insinuano la paura fugace di un senso di colpa: possibile che davvero sia così, che si materializzi dal nulla un’invenzione in un mese? O in due, in tre, ma sempre in un tempo che è perfetto e compiuto, è solo scrittura, è isolamento e silenzio e trasformazione della mia anima in altro.
Possibile, sì. Si può creare un libro in trance, senza ricordare cosa sia accaduto e lasciando che personaggi, eventi e riflessioni ti attraversino e rendano tramite. Il miracolo accade in un istante, la guarigione anche. E la malattia nasce in un istante anche se i prodromi possono arrivare da lontano. Perché non un libro, allora?
Ma la scrittura può essere lenta, e flaccida, e spigolosa o morbida in un tempo dilatato. Come questa. Ho risposto a una sessantina di email (quasi tutte richieste impossibili che arrivano da internet e iniziano con “Scusa, non voglio chiederti una consulenza ma solo un parere generale su un caso” e vanno a finire proprio là dove dichiarano di non andare: nella domanda specifica di una consulenza irrealistica) e lanciato gli occhi sulla neve appoggiata precaria sui rami. Ho annusato le foglie calde delle orchidee che tronfie sopravvivono sulla mensola sopra i caloriferi. Ho ricordato, ho cercato emozioni e sentimenti e amori. Piano, perché il tumulto dell’anima non bruciasse in fretta.
E ho cercato la tastiera, un titolo e le parole. Lente, come deve essere la passione nei giorni così.
© MariaGiovanna Luini, 2015