Colpa di Ottanio

Cindy la detestava, da sempre. La chiamava “la stronza” ed era la sua bestia nera. Non la poteva soffrire fin da quando erano ragazzine e lei, la stronza, si pavoneggiava per i viali con quelle sue parrucche stravaganti e quegli abiti che le stavano perfetti, come se glieli avessero disegnati addosso. Senza contare poi lo sciame dei maschi, fuchi impazziti che ronzavano intorno all’ape Regina, alla Diva a cui bastava puntare il dito per avere l’esemplare migliore.

Non che Cindy si ritenesse brutta, no, ma quando si trattava della stronza, lei finiva sempre con il sentirsi un gradino più in basso, bloccata in un angolo. Senza possibilità di evolversi. In una parola: statica.

Passati i vent’anni, si erano perse di vista. Cindy frequentava altri giri, aveva scoperto il teatro e le piccole compagnie locali erano il suo habitat ora. Aveva trovato sé stessa indossando gli abiti di donne destinate altrimenti a vivere solo nel chiuso di un copione. A quelle figure algide Cindy dava spessore. Animava le loro parole, nutriva i loro sentimenti. Le partoriva, sera dopo sera; regalava loro la vita, per non dover vivere la propria.

Era brava, lavorava duro ed era stata ammessa ad una prestigiosa scuola di recitazione. Sognava che presto avrebbe calcato il legno di veri teatri e detto addio a quei fatiscenti open space che si spacciavano per laboratori d’avanguardia.

La riconobbe dalla parrucca. Cindy era dietro le quinte, in attesa di fare il suo ingresso per un’audizione importante, quando un baluginio bluastro l’aveva distratta. Al di sotto di un’imponente massa di capelli finti color turchino, la stronza danzava a occhi chiusi, rapita in una specie di trance ipnotica.

Cindy era incredula; fu colta da un attacco di riso isterico che mal si adattava alla pazzia d’Ofelia e non ebbe la parte. Qualche tempo dopo venne selezionata per un ruolo da co-protagonista in una produzione minore.

Cindy accusò il colpo: non poteva credere che le fosse toccato di vestire i panni di una sfigata povera in canna che, per i tre quarti del tempo, stava in scena con un abito lercio e puzzolente e, per di più, al momento del riscatto faceva anche la figura della demente perdendo una calzatura.

Ottanio invece era riuscita persino a far cambiare il nome al suo personaggio: in onore alla sua parrucca l’avevano ribattezzata fata Turchina. Voci di corridoio dicevano che dalla pièce avrebbero tratto anche un film per il grande schermo e che Ottanio avesse una storia d’amore con quel pezzo di manzo di Mangiafuoco.

Si persero nuovamente di vista. Per meglio dire: Cindy evitò con cura che i suoi passi intersecassero ancora quelli di Ottanio ma, in un ambiente così ristretto ed elitario come quello teatrale, la misantropia equivaleva al suicidio. Ebbe ancora qualche piccolo ruolo, parti secondarie in produzioni indipendenti che non le permettevano di mantenersi. Finì con il fare la bibliotecaria, assunta da una cooperativa. Della sua carriera di attrice non aveva conservato nulla se non un paio di scarpette da ballo, dal tacco sottile.

La sua antipatia per Ottanio si era mutata in odio. L’odio prima l’aveva accecata e poi aveva ceduto il passo alla paranoia. Pioveva e i capelli le pendevano sul capo come alghe marine? La colpa era di Ottanio e delle sue parrucche. Il sole era allo zenit e la faceva sudare? Colpa di Ottanio e di quei suoi vestiti così sfacciatamente aderenti. Ormai, non era più nemmeno in grado di lavorare. Mossi a compassione, i gestori della cooperativa sociale le permettevano di gironzolare fra le corsie della biblioteca, a patto che non disturbasse gli utenti ma Cindy nemmeno li vedeva; camminava veloce, silenziosa e a testa bassa. Ogni tanto si piantava nel mezzo di un corridoio, guardava in un punto indefinito verso il soffitto e urlava con una voce stentorea che si faticava a credere potesse provenire da un corpo così minuto. Il grido era sempre lo stesso: “La colpa è di Ottanio!”

Si ritrovarono, per caso. La riconobbe dalla parrucca turchina. Ottanio era ai piedi delle scale del salone principale. La guardava con quella sua bella faccia da stronza e rideva. Rideva di lei. Cindy prese la rincorsa e si buttò verso la nemica, emettendo un basso verso gutturale Ci avrebbe pensato lei, a farla smettere di ridere, per sempre.

Le bibliotecarie trovarono il corpo solo il lunedì successivo, alla riapertura. Giaceva riverso in una posa scomposta, alla base dello scalone monumentale, il tacco a stiletto di una scarpa demodée ficcato in gola. Gli occhi sbarrati conferivano al suo volto un’espressione stupefatta. Il sangue della povera donna era ovunque, persino sullo sgargiante manifesto dal quale una fata Turchina attempata annunciava l’imminente inaugurazione di un’esposizione di cimeli teatrali.

Terminati i rilievi di rito, il magistrato dispose che la salma di Cindy fosse traslata all’obitorio.

Al loro arrivo, gli addetti della morgue trattarono il corpo con scarsa grazia: un cadavere vecchio di due giorni non era il viatico giusto per un buon inizio di settimana. La infilarono in un sacco nero e nessuno si curò di quei sottili filamenti azzurrini che ne sgusciarono fuori, danzando nell’aria per un breve istante, prima che il vento li disperdesse.

© Maria Elena Poggi, 2020


Maria Elena Poggi
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