Artefice impastatore

White Cat By Franz Marc

Lo stringo sul seno. I denti umidi, il naso piccolo e secco.
Gli accarezzo il capo. Inspiro un odore diverso da quello degli altri gatti, ma simile a quello di Edmund. Non ho mai capito perché sapesse di lepre, paglia e vento nei campi. Perché emanasse una scia lieve di concime e merda buona. Il cucciolo non ha ancora un nome. C’è tempo, mi dico. Ora è il momento di godermi questa comunione di sangue e odori. Alzo gli occhi su Edmund che mi fissa torvo. «Te lo ricordi, vero, quello che ti dicevo?». Lui m’ignora e passa frenetico la lingua sulla zampetta sottile.
«Perché, Edmund, perché fai così? È un tuo regalo, questo».

Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Dacci.
Mi sporgo in avanti e allungo le braccia. Il cucciolo è inerme, temo sia morto. Le labbra aperte e gli occhi socchiusi.

Edmund gli molla una zampata improvvisa e quello si desta. Si divincola e sguscia via come un’anguilla fra i cuscini. Il muso chiaro spunta fra i guanciali. Ha il nitore dei piccoli di ogni specie.
A guardarlo con attenzione, non sembra nemmeno un cucciolo. È già formato, grande come un gatto di almeno sei mesi.

Edmund lancia un miagolio prolungato. Ricorda il cigolio di una porta scardinata. Scende dal letto e s’incammina verso la cucina sculettando. Abbasso le palpebre e sospiro, mentre lui frantuma i croccantini nella sua ciotola gialla.

Dopo qualche istante, il cucciolo riemerge e zampetta sulla trapunta. Sorrido e lo lascio fare. A un’altra occhiata, non dà neppure l’idea di un gatto di sei mesi. Pare abbia almeno un anno. È la copia sputata di Edmund. Edmund che, dopo il fatto, impastava ogni giorno sulla mia pancia guasta, sovrastando con le fusa il pianto.
«Vorrei fossi carne della mia carne», gli ripetevo sempre.

Ora il piccolo mi si arrampica sul ventre e vi si accuccia sopra. Le fusa hanno lo stesso timbro di quelle di Edmund. A dire il vero, non ha alcun senso
definirlo un cucciolo. Non ricordavo di averlo già partorito così. Identico in tutto e per tutto al suo artefice impastatore.

Dopo che ho perso il mio bambino, ho sentito per mesi odore di sangue ovunque. Mi toccavo la pancia e le sferravo piccoli pugni compatti. Edmund si avvicinava, mi saliva sopra e impastava. Ogni giorno. Solo il suo odore selvatico mi era familiare. Era l’unica cosa al mondo che non mi apparisse estranea. Ostile.

Il piccolo è nato così. Dopo un lungo periodo in cui Edmund non ha fatto altro che affondarmi le zampe nell’addome molle. È stato facile. Il cucciolo è civolato fra le gambe come un pesce. Un guizzo fradicio di pochi peli e sangue. Mi chiedo come sia possibile che dopo un giorno soltanto sia
diventato grande. Così simile a come Edmund è adesso.

A un tratto, il silenzio avvolge la casa. A parte le fusa del piccolo, sento a malapena il ronzio del frigo e i brusii dalla strada.

Mi sollevo e mi sporgo in avanti. Afferro il gatto che ho sulla pancia e lo posiziono accanto al cuscino. Mi alzo e vado in cucina. Di Edmund non c’è traccia. Allora lo cerco ovunque. Per tutta la casa. Guardo sotto i mobili. Nell’armadio e negli angoli impolverati. Ho una fitta alla schiena. Un grumo di disperazione in gola. Quando torno in camera, il piccolo è ancora sul letto. Edmund non tornerà. Edmund non se n’è andato. Carne della mia carne.

©Laura Scaramozzino

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