L’agnello che perse l’accento
A sette anni mi consideravo un’esperta viaggiatrice. La convinzione mi veniva dal fatto che ogni estate, a fine giugno, mia madre preparava le valigie, affidava mio padre alle cure della nonna e tornava a Firenze, dalla sua famiglia. Perché mia madre era continentale e la Sicilia l’accettava solo per amore di mio padre.
Così partivamo. E la nonna, da parte sua, era molto contenta di potersi impadronire di nuovo del suo unico figlio maschio, anche se staccarsi da me l’addolorava terribilmente.
Comunque si partiva. Noi due da sole, io e la mamma. Quando gli emigranti scendevano giù per le ferie, noi si saliva in direzione opposta. Su, verso il nord. Verso la modernità. Con un treno che attraversava il mare, nascosto nella pancia del ferry-boat.
I compagni di scuola m’invidiavano assai per queste villeggiature nordiche: non sapevano, poveretti, che Firenze d’estate è una conca di calore! Motivo per cui, ad agosto, ci trasferivamo in collina, vicino a Poggio a Caiano. Ma là non mi sembrava d’essere al nord. Eh no. Il ‘nord’, per essere tale, ha bisogno delle luci della città.
Tuttavia i miei amici, non conoscendo questi particolari, m’invidiavano. E ancor più m’invidiarono quell’anno, quando la partenza non fu a giugno, bensì a Pasqua, addirittura.
Non ricordo esattamente il motivo di quella vacanza fuori stagione. Forse perché l’altra nonna, cioè la mamma della mamma, stava male. E infatti andammo subito a Poggio a Caiano, a causa dell’aria buona.
Il luogo era bello, niente da eccepire: le colline, il fiume, la villa di Lorenzo de’ Medici che dominava il paesaggio con le sue linee aperte, distese. Io però mi annoiavo e rimpiangevo le strade di Firenze, piene di stranieri. Mi prendeva la malinconia quando pensavo ai caffè, alle mie soste abituali da Rivoire e alla cioccolata in tazza, scura, densa, appena macchiata da un ricciolo di panna.
A Poggio a Caiano, inoltre, non conoscevo nessuno – nessun bambino, per l’esattezza – perciò non potevo giocare e questa era la cosa più grave.
Poi un giorno, graziaddio, conobbi Bianca. Aveva qualche anno più di me e tuttavia, malgrado questo inconveniente, stringemmo subito amicizia. Mi prese sotto la sua protezione e da quel momento non ebbi più problemi. Abbandonai ogni velleità cittadina pur di stare con Bianca e le sue amiche.
Passavo tutto il tempo con loro, dalla mattina alla sera. Mi piaceva quando esclamavano con la loro voce toscana: “O bellina questa!” Oppure quando mi chiedevano, stupite: “O non lo sai chi era Bianca Cappello?”
No, in effetti non lo sapevo. E, quando lo seppi, mi sembrò strano che i genitori di Bianca avessero dato a una figlia il nome di quella donna tenebrosa, morta avvelenata proprio lì, nella bellissima villa di Poggio a Caiano. Era una storia d’inganni, infedeltà coniugali e misteriosi ammazzamenti. “L’era un amore fatale“, commentava Bianca abbassando il tono.
Poi tornava ai discorsi normali e mi faceva ridere perché, parlando di suo padre, diceva ilmi’ babbo. Mi pareva impossibile non sapesse che per noi – noi siciliani – ‘babbo’ è un insulto. Ma quando mio padre decise di festeggiare la Pasqua in famiglia, annunciai la cosa a Bianca dicendo: “Arriva il mi’ babbo.” Mi parve, in qualche modo, un atto dovuto. Era giusto conformarsi alle usanze locali: per ricambiare l’ospitalità, se non altro.
Le sorprese tuttavia non erano finite, perché mio padre arrivò tirandosi appresso anche la nonna: poteva rimanersene tutta sola in Sicilia durante le feste?
Dunque si presentarono in coppia. La nonna indossava uno spolverino nero, molto elegante, e io, pazza di gioia, le corsi incontro per informarla delle novità. Lei mi ascoltò. Poi d’un tratto disse: “Ma come parli?” E voltandosi verso mia madre in un gesto di accusa: “Come parla, ‘sta bambina?”
Allora, d’improvviso, mi accorsi che stavo parlando come Bianca. Esattamente come lei. Aspirando alcune consonanti, scivolando sulle doppie e introducendo qua e là delle vocali improprie.
Non dicevo ‘babbo’ a mio padre, questo no, non avrei mai osato, ma per il resto parlavo toscano come la mia amica.
Non appena me ne resi conto, avvertii un rimescolamento in fondo allo stomaco. Ebbi l’impressione che le parole si fossero arroventate e mi uscissero bruciando dalla gola. In un solo attimo mi tornò in mente il gusto amarognolo di certe minestrine d’erba che ci ammanniva la servetta, ripensai a Bianca Cappello e alla tradizione inquietante di veleni e tradimenti che aleggiava su di noi e su tutto il paese di Poggio a Caiano.
Di colpo nascosi la faccia contro le gambe della nonna e, da quel rifugio, dissi: “Forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male alla lingua.”
Lei dapprima non rispose. Alla fine borbottò: “Eh, tutto può essere.” Ma sorrideva quando si chinò per sussurrarmi all’orecchio: “Tranquilla, ora ci penso io a cucinare da cristiana.”
La faccenda, per la verità, non filò proprio liscia. La nonna fiorentina non amava la concorrenza ai fornelli, ma era una signora e fece buon viso a cattivo gioco. Anche la nonna siciliana, nondimeno, era una signora, così lasciò all’altra le incombenze quotidiane e si mise a preparare il regalo per me: le pecorelle pasquali.
I preparativi si svolsero nel più gran segreto: essendo la beneficiaria dell’impresa, dovevo essere tenuta all’oscuro e quindi sapevo e non sapevo. Sentivo la nonna che si lamentava perché in paese non aveva trovato gli stampi: “Mi toccherà fare tutto a mano!” Ogni tanto in cucina scoprivo degli involti bislunghi, morbidi e profumati, protetti da una tovaglia. La tentazione era forte, ma evitavo di sbirciare là sotto per non sciupare l’attesa. E’ bello aspettare, quando siamo sicuri che il nostro desiderio si avvererà…
E una mattina, finalmente, mi sveglio ed è Pasqua.
Apro la porta della sala da pranzo con un leggero batticuore ed eccole lì, le pecorelle di pasta reale. Con le zampe ripiegate sotto la pancia, il musetto dipinto e un trionfo di bandierine sulla schiena.
Un po’ isolato dal gregge, c’era un agnello enorme con un fiocco rosso attorno alla coda. La lana del manto gli ricadeva attorno in onde perfette. Stava sul suo prato di carta verde e cercava di guardarmi con occhi dolci, dolcissimi, ma non poteva, perché il suo collo… dio mio! Il collo era piegato all’ingiù, in modo innaturale. Come se faticasse a reggere il peso della testa.
Be’, senza gli stampi, lavorando sempre a mano… Era nato male. O forse, chissà…
Forse piangeva a capo chino – così mi parve, alla fin fine – perché anche lui, in quella trasferta continentale, aveva perso il suo accento siciliano.
© Maria Rosa Cutrufelli
Maria Rosa Cutrufelli. Nata a Messina, da tempo vive a Roma. Ha pubblicato sette romanzi, tre libri di viaggio, un libro per ragazzi e numerosi saggi tradotti in molte lingue. Ha curato antologie di racconti, scritto radiodrammi per la Radio-Televisione italiana e insegnato ‘Teoria e tecnica della scrittura creativa’ all’Università La Sapienza di Roma. Il suo ultimo romanzo, I bambini della Ginestra (Frassinelli, 2012), racconta la strage di Portella e il bisogno di uscire dal silenzio della memoria.