Tutto nero

Irene, adesso cerca di calmarti e smetti di fare l’isterica.»
Il mio tono avrebbe voluto essere fermo e deciso ma riuscii solo a innervosire ancora di più mia moglie che riprese con la tragedia greca: «Ci toglieranno nostra figlia! Avranno già avvertito i servizi sociali! Ne dichiareranno l’adottabilità!»
Se c’è una cosa che a mia moglie non manca, ammettiamolo, è il senso del drammatico.
«Irene, basta, la direttrice ha solo detto che aveva bisogno di parlarci insieme alla maestra di Alice e alla psicologa della scuola. Non drammatizziamo.»
«Carlotta, tu come al solito sottovaluti la situazione.»
«Tesoro… »
«Lo so io che cosa è successo: qualche omofobo del cazzo avrà dato in escandescenza e avrà intrapreso una crociata contro le famiglie arcobaleno… sulla pelle nostra e di nostra figlia.»
«Irene, ragiona, abbiamo scelto il miglior istituto della città. Sono moderni, aperti e non mi sono sembrati per niente omofobi.»
«Loro magari no, ma i genitori? Eh? Che ne sappiamo degli altri genitori? Prendi i genitori di Nicholas…»
«Che cos’ hanno che non va? Mi sono sembrati brave persone.»
«Hanno un SUV.»
«Oh, certo, chiaro simbolo degli omofobi di tutto il mondo.»
«Tu… tu…TU non capisci.»
Mi imposi di non rispondere: qualcuno, in famiglia, doveva pur mantenere la calma e quel qualcuno, al solito, ero io.
Entrammo a scuola e ci infilammo in presidenza, dove la direttrice ci aspettava insieme alla maestra Margherita e alla psicologa.
Sorrisi, strette di mano, sguardi gentili. Nessun rogo in vista.
«Pensiamo che Alice sia turbata da qualcosa e vorremmo che vedeste i disegni che ha fatto dall’inizio della scuola: ecco, sfogliateli pure.»
Con tutta l’artisticità dei suoi quattro anni, Alice aveva ritratto me e Irene insieme a Bu, il nostro cane, le nonne e i nonni che rincorrevano Bu, Bu che rubava le bistecche, se stessa e Bu nella piscina gonfiabile in giardino. Erano disegni buffi, divertenti e pasticciati.
E tutti colorati di nero.
Non c’era nessun altro colore: uno sbaffo di azzurro, un’idea di rosso, un alito di verde. Niente.
Nero. Tutto nero.
Io e Irene ci scambiammo uno sguardo denso di angoscia. Rispondemmo con precisione alle domande che ci vennero fatte: Alice era una bambina serena, mangiava con appetito, non aveva disturbi del sonno, non bagnava il letto, io e sua madre andavamo d’accordo e non stavamo progettando un divorzio. L’idea che qualcosa di oscuro e ignoto angosciasse la mia piccina mi stava stritolando la bocca dello stomaco.
La maestra Margherita, infine, andò in classe e tornò con Alice, la quale, come ci vide, si mise a strillare di contentezza buttandoci le braccia al collo.
«Alice, le tue mamme sono passate a salutarti. Adesso per ringraziarle farai un bel disegno per loro. Sei contenta?»
Alice annuì e si sedette su un banco accanto alla maestra, che le mise a disposizione un’intera scatola di pastelli e un blocco di fogli bianchi.
Guardai mia moglie e lei guardò me: la nostra piccina, la nostra pulce, la cosa più buffa e tenera che potesse capitarci nella vita. Che cosa le stava succedendo?
Alice aprì la scatola di pastelli e li sparpagliò sul banco. Prese in mano il pastello nero, poi lo scartò decisa e acciuffò il verde, quindi, con la stessa energia con cui avrebbe dissodato un campo di patate, prese a disegnare un prato. Sul prato piazzò una casa rosa confetto, in cielo due pesci azzurri (la vena bizzarra viene dalla famiglia di mia moglie) e a fianco della casa rosa confetto un Bu rosso vermiglio, grosso quanto la casa.
Alice disegnava seduta sui talloni, un pezzetto di lingua fra i denti, una ruga di concentrazione in mezzo alla fronte: Michelangelo intento a tinteggiare la cappella Sistina.
La psicologa decise di interrompere il flusso creativo di nostra figlia: «Alice, stai facendo un disegno bellissimo e bellissimi sono anche i colori. Ti piacciono i colori?»
Michelangelo annuì: «Il rosso è il mio colore preferito.»
«Il rosso – commentò la psicologa – è un bellissimo colore. Ma ora dimmi: come mai quando sei in classe usi sempre e solo il nero?»
«Lo sgabello» rispose Michelangelo allungando i ricci di Bu.
«Lo sgabello?»
Con uno sbuffo impaziente, Alice si decise ad alzare la testa per guardare in faccia la psicologa.
«Nella mia classe sono la più bassa e per arrivare ai pastelli ho bisogno dello sgabello, ma arrivo sempre ultima e l’unico colore che mi lasciano è il nero.»
Attimo di silenzio. Sollievo. Non avevo una figlia traumatizzata, solo una figlia pulce. E mi scappava da ridere.
«E poi – aggiunse la pulce dando un ultimo tocco di colore a Bu – Nicholas mi ruba sempre il rosso. Sempre.»
Io guardai mia moglie: sulla sua testa le stava spuntando un enorme cartello con una scritta rossa che diceva “Nicholas. Io lo sapevo.”.


Racconto letto da Viviana Gabrini.
@Viviana Gabrini, 2019

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