Giallo, rosso, blu di Roberta Fava

Provo le chiavi finché non trovo quella giusta. Appena la porta si apre, l’odore di nuovo assale le mie narici. Un grande divano rosso spicca nell’area living. La cucina a penisola come l’ho sempre desiderata, la libreria, la tv, la carta da parati stile scandinavo. Non sto nella pelle. Ho una casa tutta mia. Basta con le porte chiuse a chiave, i muri che sanno di disinfettante e la luce bianca, troppo bianca.
Raggiungo la zona notte. Futon di design su parquet in rovere caldo. Armadi ad ante scorrevoli. Contrasti calibrati tra mobili e tessuti. Poi lo vedo. È lui. La stampa di un Kandinskij appesa alla parete mi paralizza. Avevo detto all’arredatore che ai quadri ci avrei pensato io, ma deve essersene dimenticato.
Mi sento male. Il cuore perde ogni ritmo naturale. Vacillano le immagini davanti ai miei occhi. I ricordi. Sono loro a trascinarmi in quella stanza. Sono loro a diventare sempre più nitidi. Tornano le percezioni. Visive: la scatola delle veline e la ciotola delle caramelle sul tavolino. L’imponente scrivania antica e la sedia moderna. La penombra. E la stampa di Kandinskij. Uditive: la sua parola è una nenia lenta, la sua voce un martello grave. Olfattive: l’odore del suo fiato e del suo sudore. Tattili: il bavaglio che mi stringe la bocca, i lacci che mi sfiniscono i polsi.
Mentre subivo quella che lui definiva “la terapia”, mi estraniavo perdendomi nella stampa appesa alla parete. Imparavo ogni particolare di quelle geometrie. Diventavo io stessa triangolo, poi cerchio, poi linea. Ero giallo, rosso, blu. Solo alla fine arrivava il sapore. Era quello del sangue. Perché i denti li stringevo, perché mi ferivo, sempre.
Un clacson giù in strada mi riporta nel “qui e ora”. Un respiro profondo. “Hic et nunc”, ripeto il mantra. Visualizzo nella mente immagini di mare quieto, respiro. Hic et nunc. Mi concentro e mi calmo.
Mi affaccio alla finestra. C’è Giò, la mia amica di sempre, la mia stella polare. Avvocato penalista. Si è fatta in quattro per convincere le altre a sporgere denuncia.
La mia voce da sola non sarebbe bastata, sarei stata la squilibrata che inventava storie per scappare dai suoi problemi, quella che prima o poi sarebbe finita in un’altra clinica.
Ora tutti i mass media e i social gridano allo scandalo: “Psicoterapeuta di fama nazionale abusa delle sue pazienti.”
Mentre le faccio un cenno con la mano, osservo l’orizzonte.
La città da quassù è bidimensionale. Le strade, i tetti, i parchi sono figure geometriche che si intrecciano.
Ma ci sono anche piccole pennellate irregolari: le persone, ora lente, ora veloci, sono imprevedibili, senza geometria. Proprio come Giò, che mi fa cenno di scendere.
Rientro. Stacco la stampa dalla parete e rovescio la cornice dietro la porta dello sgabuzzino.
Prima o poi la tirerò fuori di nuovo. Prima o poi farò i conti con la geometria di quei ricordi.
Quello che voglio adesso, però, è solo una tavolozza di colori. Tutti mischiati assieme.

©Roberta Fava, 2020

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *