Frontiere [10] di Luca Bonisoli

Studio portrait of Native American Apache Indian chief and warrior Geronimo (c.1829 – 1909) wearing an honorary medallion and Western clothes. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

SILVER CITY 1873

Sulla morale ho capito solo che una cosa
è morale se dopo averla fatta ti fa star bene.
Immorale se poi stai male.
(Ernest Hemingway)

Era un periodo della sua vita in cui non passava giorno senza che si domandasse se non fosse una buona cosa trovare una moglie e darsi da fare per avere dei figli, possibilmente tanti. Aveva visto molte famiglie nei ranch improvvisati attorno alle città che nascevano lungo le piste che portavano a ovest. Non era gente che sorrideva molto, questo è vero. Però avevano un tetto sulla testa, una donna calda con cui dormire e bambini che presto sarebbero cresciuti. Certo, se non ci fossero state nel frattempo carestie, siccità, epidemie di vaiolo e di morbillo, le malattie delle vacche, Billy the Kid e gli Apache di Geronimo, Nana, Victorio, Juh e Mangas Coloradas, oltre a qualche testa calda irlandese. Ma quelle erano disgrazie che potevano accadere ovunque e a chiunque tutto sommato.
Cavalcava al piccolo passo a poche miglia da Silver City, sulla pista che portava al Gila River e poi su a nord verso Holbrook. Era un assolato luglio del 1873 e Jesse aveva appena salutato una carovana di giovani europei che avevano lasciato la loro terra disgraziata per cercare fortuna da quelle parti. Non discuteva mai le scelte, nemmeno quando erano così apertamente stupide. Le miniere d’argento scoperte qualche anno prima si stavano esaurendo rapidamente, ed era più la gente che si ammalava e ci rimaneva secca di quella che riusciva a mettere insieme fagioli e patate per cena.
Le miniere non gli erano mai piaciute. A nessun indiano piacciono: è un luogo di morte. Quando in qualche Saloon della zona sentiva narrare le gesta di  Geronimo, capace di entrare in una galleria senza uscita e scomparire nel nulla, per poi spuntare dall’altra parte della montagna, rideva, perché sapeva che erano tutte idiozie: un Apache si calza i mocassini al contrario, e ti illude di essere entrato mentre invece era uscito. Imbecille.
Si era chiesto anche perché quelle volte in cui si era imbattuto un un gruppo di indiani gli fosse andata sempre bene. Non era gente che s’impietosiva se avevi anche tu il naso grosso e gli occhi neri. Per cui il motivo restava sconosciuto, ma confidava che quella magia potesse durare ancora un po’. Non aveva mai sparato né ucciso un pellerossa che non se lo fosse meritato. Quei due di El Paso non contavano, quelli erano ladri e avrebbero fatto del male a Sarah. Ecco, Sarah. Con lei sì che avrei fatto dei figli. Sarebbe diventata donna presto, e il suo corpo si sarebbe riempito, arrotondato. Cazzo. Si alzò un  momento sulla sella per aggiustare un problema temporaneo nei pantaloni. Fermò il cavallo.
Occhi al cielo, qualcosa non andava. Odore di bruciato, appena percepibile. Yuh.
Col cavallo al passo lento percorse la curva della pista che verso destra virava a nord. Vide all’orizzonte un filo di fumo nero. Poco a ridosso del Gila River, a giudicare dalla distanza. Era una striscia sottile, segno che l’incendio era quasi spento, limitato a una piccola zona, e nero. Una fattoria sicuramente.
Guai in vista.
Meno di venti minuti dopo gli zoccoli del cavallo si fermarono a ridosso delle ceneri bianche e nere di quella che doveva essere stata la residenza della famiglia di allevatori che era stata uccisa, bruciata e lasciata lì. A giudicare dal fumo era stata una razzia della sera prima. Tra i resti inceneriti della casa riconobbe cinque corpi, carbonizzati e lucidi come il vetro. Due adulti e tre bambini, a giudicare dalle dimensioni dei resti.
Si scatenerà un’altra guerra.
Il cavallo era nervoso, almeno tanto quanto Jesse, e sbuffava dandogli da intendere che voleva andare via. Ok, bello. Spinse dolcemente le briglie verso la sua sinistra e fece il giro largo della fattoria. Dietro la legnaia alla sua destra, oltre il camino annerito, la vide. Nel suo abito azzurro a fiori con i polsini e il colletto bianco, coi capelli lunghi e biondi che si muovevano appena nella brezza. Risparmiata dalle fiamme una bambina di neanche dieci anni era stata appesa per la nuca a un gancio da macellaio, e lasciata lì come un osceno biglietto da visita.
Scese da cavallo, lo legò alla staccionata rimasta in piedi. Si guardò in giro e vide chiaramente chi poteva essere stato a combinare quel macello. Le impronte erano chiare. Fece attenzione a non calpestarle, scavalcandole. Si portò sotto la bambina e provò a sganciarla ma quell’attrezzo le si era conficcato in profondità nella testa e il sangue si era indurito, incollato. Aiutandosi con una cassa su cui salì e tenendola stretta con un braccio riuscì a toglierle il ferro. Finalmente libero il corpicino si abbandonò e la testa gli si appoggiò al petto. Se la trovò così, come se fosse addormentata. Ma come si fa, Geronimo, a fare una cosa così? Cosa ti hanno fatto per farti diventare un simile demonio?
La portò fuori, la stese a terra e la compose. Legò con una corda quel corpo minuto, e usò una parte della veste azzurra per coprirle la testa. La mise di traverso sul cavallo, risalì in sella, e si diresse verso sud, da dove era arrivato al galoppo leggero. Aveva fretta di arrivare.
Questa non la passi liscia. È vero, questa gente probabilmente non mi avrebbe dato nemmeno l’acqua per il cavallo e mi avrebbe sparato da cento yarde. So cosa vuol dire. In Texas messicani e americani si odiano e si macellano in continuazione, ma entrambi detestano gli indiani e disprezzano i mezzosangue come me. Li manderei a morire anch’io, forse. Beh, qualcuno sì. Ma non si fa una cosa così a una bambina.
E così pensando rientrava a Silver City, sapendo perfettamente che gli sguardi diffidenti lo avrebbero circondato. Gli avrebbero fatto domande, l’avrebbero trattenuto per un po’. Poi l’avrebbero lasciato andare senza troppe scuse e forse con qualche rimpianto.
La sua vita era questa. Sulla pista, che ormai aveva perso ogni colore, ribadì a sé stesso il motivo per cui aveva scelto di rimanere solo.

© Luca Bonisoli, 2017


Luca Bonisoli è tra gli autori dell’antologia “IN VIAGGIO” (collana Sdiario, Edizioni del Gattaccio).
Per acquistarlo potete scrivere a: info@edizionidelgattaccio.it
Buona lettura!

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