L’anniversario della memoria quotidiano

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L’anniversario della memoria quotidiano

Le chiedo cosa succede, le chiedo sempre cosa succede ogni volta che sussulta. Lei spesso non risponde, certe volte fa un cenno bambino con la testa come a dire che no, sciocchezze sue. Altre ancora mi dice che ha sentito un aereo passare, o il passo di stivali pesanti, oppure qualcuno che ha bussato. Non sa.
È possibile, le dico, è possibile tutto questo.
Lei risponde sì, esita, poi ride di se stessa. Si scusa.
La guardo e me la immagino bambina, di pochi anni e bionda, gli occhi verdi che so. Era figlia di un collaboratore dei partigiani ma non quelli eroici. Uno di quelli che aveva famiglia e faceva quel che riusciva a fare: nascondeva i compagni nelle cantine, attraversava i boschi per portargli le vivande, gli procurava rifugi sempre nuovi. Sapeva leggere e scrivere e questo era utile perché aiutava l’impiegato dell’anagrafe a confezionare i documenti falsi. Non piaceva già ai fascisti e quando subodorarono la tresca lo mandarono nei campi di concentramento, a lui e alla famiglia intera, ma separati. Lei, piccolissima, finì con la madre e la sorellina in Abruzzo. Tuttavia era italiana, cattolica e quindi privilegiata: nei pochi giorni in cui ci rimase le diedero persino una cipolla che inghiottì d’un fiato. Ma di fronte gli occhi di un’altra piccina affamata che, in quanto ebrea, era lasciata quasi senza cibo.
E come in una cerimonia, da sempre che io ricordi, quando davanti al lavello ne sbuccia una si asciuga due righe di lacrime con l’interno dei polsi. Intanto tira via i veli dal bulbo con la lama del coltello, lentamente, e ogni volta dice “maledette cipolle”, a voce un po’ alta, giusto per farsi sentire e non darci pensiero. Dice che è un guaio il fatto che ‘ste verdure irritano gli occhi e la fanno piangere così, come una stupida.
Oggi mi faccio coraggio e cerco di dirle che non è sicuro che quella bimba sia morta e che, comunque, era tutto quanto terribile lì dentro. Che non si può lacerare ogni giorno da quasi ottant’anni e che magari da qualche parte del mondo quella piccola ebrea ora è una donna anziana, con le sue ombre, certo. Ma nessuna di quelle è opera tua. Nessuna, insisto.
Non sappiamo ancora capirne molto di tutto quell’orrore, almeno: non questo granché, le dico. Non sappiamo capirne nulla né io né te, mamma.
Continuo sul fatto che era solo una bambina di pochi anni e non ha proprio niente da perdonarsi. Mi intestardisco: è ora che dimentichi, adesso è davvero ora; è passato troppo tempo. Non ci sono allarmi antiaereo la notte, è solo il vento che fischia a svegliarla o forse nemmeno. Nemmeno quello. Non ci sono i tedeschi né i fascisti coi manganelli. Non ci sono le tessere annonarie perché non c’è più nemmeno la fame, almeno: non troppa.
Per qualcuno sì, risponde, ma soltanto dopo un po’. Me ne sto zitta, so che ha ragione anche stavolta.
Allora le dico che forse sì: bisogna di ricordare.
Lei ora per tranquillizzarmi parla d’altro. Dice che questo sugo è migliore di quello di marca; e che con tutta la pubblicità che gli fanno dappertutto – riviste, giornali, volantini – dovrebbe andare bene, invece no. Questo ha i pomodori a pezzettoni grossi così, guarda. Ne ha preso due bocce anche per me. Io rispondo che lo proverò presto, mi fido del suo giudizio: lei ne sa più di me, lei capisce tutto meglio e prima. Mi dà un bacio sulla fronte, uno sugli occhi chiusi e prima che io vada mi raccomanda di stare attenta. A cosa di preciso non sa dirlo: a tutto quanto, devo stare attenta.
Mi giro a guardarla, un altro bacio al volo da lontano e la lascio lì – sull’uscio della porta, la mano aperta e il sorriso – a celebrare anche per oggi, in silenzio, il suo anniversario della memoria quotidiano.

© Katia Colica, 2015

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