Atto di dolore

Cosa si prova prima di morire? Dolore? Paura? Terrore quanto meno. E la luce in fondo al tunnel? È solo una spia tipo accensione del televisore che alla fine si spegne e finisce tutto? Poi c’è la figura dell’anima amica che viene a prenderti per traghettarti verso la destinazione finale, che poi potrebbe essere l’inferno se non ci siamo comportati bene e allora che senso avrebbe quella presenza rassicurante e protettiva che ci aspetta all’imbrunire se poi deve solo indicarci con dispiacere la strada verso il dolore e l’eterna afflizione?
Avanti per 200 metri, alla prima svolti a destra, poi salti nella botola, per un ottimo tuffo a bomba tieni le braccia conserte sul petto.
Me l’immagino, cara nonna, vicino al mio corpo in fin di vita, vorrebbe consolarmi, piangere per la mia anima immortale perduta per sempre ma poi la tentazione è troppo forte e parte con un “te l’avevo detto” che manco mia madre dopo la mia prima sbronza.
Una volta accennai il problema all’anestesista che avrebbe dovuto assicurarmi un tranquillo sonno artificiale durante un’operazione chirurgica: io farò la mia parte, le dissi, se vedo la luce in fondo al tunnel mi giro dall’altra parte, lei pensi solo a tirarmi fuori da quel tunnel. Inspiegabilmente quella s’incazzò come se mi fossi alzata in piedi sulla barella imponendo le mani e predicando la parola di Osho, mi travolse con una manciata di improperi che teneva riposti in tasca e mi urlò qualcosa tipo “ma che luce? Che tunnel?”, valle a spiegare che era il mio modo per affrontare la tensione. Facemmo pace ma i miei sogni furono agitati, chissà quali formule magiche mi aveva insufflato nell’orecchio durante la sedazione.

La protagonista di questa storia, che chiameremo Farfallina, si è fatta un’idea più precisa e scevra da fronzoli cinematografici riguardo all’approssimarsi del sonno eterno. La giovane donna, alta, corporatura imponente, capelli appena usciti da un bagno di tinta rosso metallizzato, stava attraversando una stradina così stretta che se non fosse stata asfaltata avremmo potuto scambiarla per una mulattiera. Portava all’ingresso di un paio di case e finiva con una scalinata, così che non ella si aspettava di incontrare un gran sfrecciare di automobili su tale viuzza. Controllò che non ci fossero macchine che si immettessero per parcheggiare e che nessuno stesse uscendo in senso inverso, mise un piede sulla carreggiata, libera,
vuota, una prateria vergine sulla quale edificare un villaggio di pellegrini. Un lampione acceso vigilava sulla sua testa rosso fiammante, la guardava dall’alto, il sole era tramontato da poco, la visibilità ottima, l’umore perfetto. Due passi sull’asfalto, le strisce a pochi metri di distanza. L’occhio destro percepì un movimento, la presenza di qualcosa di anomalo, un oggetto che non doveva trovarsi lì. L’essere, la forma, quella presenza si faceva sempre più incombente, si ingigantiva mentre il piede si appoggiava a terra e
tutto l’organismo lavorava affinché la coordinazione del corpo permettesse un’ottima stabilità, i nervi trasmettevano milioni di informazioni che si traducevano nell’armonia della camminata. Il tallone sfiorò terra, il viso di Farfallina ruotò leggermente mentre le sopracciglia si univano a formare una buffa espressione interrogativa, qualcosa di sbagliato stava riempiendo uno spazio che doveva essere vuoto per logica deduzione. La pianta del piede si posizionò correttamente, il suo corpo rispondeva alla perfezione, il passo era leggero, il mostro sopraggiungeva dal nulla, sputato dal vuoto come un nocciolo di ciliegia che si voglia scagliare lontano.
Lei non lo vide con gli occhi, lo percepì, e comprese ogni cosa.
Ci fu l’impatto. Nessun dolore, solo una spinta, come se tante braccia la sollevassero da terra e la gettassero via, un rifiuto da lanciare in un cassonetto.
Era seduta da parecchio tempo, il letto era ingombro di giornali e dischi. Aveva voglia di leggere il testo di una canzone che aveva in testa, poi lanciò uno sguardo in giro e si ricordò della sua nuova rivista preferita con tutti i testi delle canzoni e le foto a tutta pagina degli attori che amava. Ne ammonticchiava qualcuno e intanto canticchiava quella canzone. Disegnare, ecco cosa! Adesso voleva fare il ritratto di Jennie Garth, desiderava con tutta l’anima essere come lei. Entrò il padre, un’espressione indifferente, voleva solo
salutarla. Passava spesso davanti alla sua camera e sbirciare quelle sue attività da bambina gli regalava un senso di pace, di realizzazione.
«Che c’è?» disse lei con tono infastidito a mascherare un senso di pudore e di imbarazzo, come se fosse stata scoperta a fare pipì con la porta aperta. Lui non rispose, rimase in silenzio, sembrava che la
sua mente fosse altrove. Normalmente in tali circostanze lui avrebbe reagito alla sua ostilità opponendo una provocazione che l’avrebbe fatta irritare, oppure una considerazione benigna sulla qualità della
musica in bella vista sul letto. Ma ora taceva. Farfallina si ricordò che adesso il papà era diverso e quando si vedevano non le diceva più nulla, la guardava per qualche istante e poi spariva.
«Non te ne andare…»
Non funzionava mai.
Era tardi, doveva andare a scuola, era in classe, non ricordava quale professore mancava e non c’era neanche un supplente, tutti erano in silenzio, a nessuno importava. L’aula era molto grande e sguarnita,
asettica, come una sala operatoria, nessun cartellone chiassoso con pezzi di carta attaccati a metà, né armadietti sbrindellati o vecchi infissi devastati dal tempo. L’aula era buia, evidentemente mancava
anche una lampada al neon impiccata al soffitto. Ricordò. La professoressa di matematica non sarebbe arrivata, Dio del cielo grazie! Non aveva interrogato per tutto l’anno, mai, neanche una volta, era sempre andata avanti spiegando un programma che lei non aveva capito. Non controllava neanche i compiti per casa che tutti facevano tranne lei. Tutti capivano e andavano avanti tranne lei. Lo stomaco le si rivoltava perché da un giorno all’altro la professoressa avrebbe deciso di interrogare sull’intero programma.
Erano le ultime settimane di scuola, a breve ci sarebbero stati gli esami e non aveva neanche mai aperto il libro di storia. Ma ce la farò, pensava, adesso giuro che mi metto a studiare e recupero tutto,
ci riuscirò.
Se avrò l’occasione tornerò indietro e studierò, seguirò le lezioni, farò tutto quello che serve. Quanto tempo perso, vita sprecata, so far meglio di così.
Era l’ultimo giorno per prenotarsi per l’esame e, come sempre, i fogli appesi alla parete erano stracolmi, le date e gli orari migliori già presi. La parete della facoltà era lunghissima, neanche una porta che interrompesse quei filari di fogli attaccati con lo scotch. Le sembrava che ci fosse un buco su un pezzo di carta agonizzante, tutto scarabocchiato, non si capiva cosa ci fosse scritto.
Letteralmente non riusciva a interpretare quei segni, non capiva che senso avessero quelle lettere sparse, non era possibile, non sapeva più leggere. Doveva telefonare a qualcuno che la aiutasse, aveva un
vecchio telefonino a tastoni, lo estrasse dalla tasca dei jeans e cercò la rubrica. Cercò il contatto di un’amica che seguiva lo stesso corso, a dire il vero era più una conoscente e infatti non ricordava il nome.
Nella sua testa la vedeva chiaramente, la capigliatura poco curata, l’impellente bisogno di una maschera anti-crespo, occhi severi, giudicanti, una vera stronza che non aveva mai problemi con lo
studio ma Farfallina la apprezzava molto perché non fingeva mai di temere un voto basso quando chiaramente viaggiava a vele spiegate, le risparmiava la recita della martire che scopre con sorpresa di aver preso l’ennesimo 30 quando si sarebbe aspettata un 18. Non riusciva a trovarla in rubrica, digitava solo simboli e numeri, nulla aveva senso e il tempo era quasi scaduto.
Tornerò indietro e sarò come la stronza senza balsamo e senza bocciature.
Scese in cucina, c’era la mamma, era giovane, masticava una gomma ed era impegnata in qualcosa che assorbiva tutta la sua attenzione.
Sembrava andar di fretta, probabilmente doveva uscire perché era immersa in un profumo forte, deciso, profumo di donna in carriera misto menta di chewing gum. Un pomeriggio pieno di sole, l’aria
mite di una primavera fresca, perfetta, lunga, infinita.
Tornerò indietro e mi godrò ogni istante di ogni meravigliosa, lenta, morbida primavera.
C’era anche il padre, sempre indifferente, indossava una tuta come quando si apprestava a curare il prato, le piante e i fiori che aveva scelto la mamma, i cespugli, i fiorellini di campo senza pregio che diventavano bouquet in omaggio all’amata figura della genitrice.
Farfallina ne aveva raccolto un mazzetto e come sempre sua madre lo aveva riposto in un bicchiere. Il papà si stava preparando la colazione, aveva bruciato il pentolino e lei aveva fame ma non poteva ostacolare le operazioni goffe del padre, il quale esigeva massima libertà di movimento in cucina. Era l’alba, un cielo bellissimo.
Da quanto tempo erano insieme, si chiese lei? Non dura mai così tanto.
«Mi dispiace papà», sussurrò nella penombra, nell’ambiente splendidamente illuminato dai primi raggi del mattino.
«Di cosa?» rispose lui che non stava più pasticciando.
«Di tutto quel dolore e poi la solitudine, l’ultimo anno non avevi più voglia neanche di vedere me.»
Di questo era sgomenta e terrorizzata, lei, la figlia amata. Più che di ogni altra implicazione, morte inclusa. Alla fine, lui non la amava più.
Il papà rispose con un leggero sorriso che non voleva dire nulla, perché non aveva altro da comunicare. Lei poteva perdonare o tenere il broncio, non importava, le cose erano andate così. Stava per uscire dalla stanza, lei sapeva che ciò significava che non lo avrebbe rivisto per tanto tempo perché erano molto rare quelle occasioni, quindi fece l’unica cosa che poteva: oppose una strenua resistenza a quell’atto di separazione e lo abbracciò con veemenza, le braccia intorno alla vita e il viso sul collo. Il profumo della sua colonia, il corpo forte, un leggero sovrappeso, non esile e fragile come stava cominciando a ricordarlo. Malato, consumato, una foglia trasportata altrove da un refolo di vento. Le braccia di lei adesso gli cingevano il collo, lui le accarezzava la schiena e la stringeva come quando gli importava ancora di lei.
«Ti ho amato sempre, fino alla fine, ma non lo ricorderai mai più», poi svaniva lasciandole la sensazione che non tutto fosse perduto.
Era seduta. A pochi metri dall’impatto. Il braccio innaturalmente accartocciato dietro la schiena come un morbido tubo di gomma, alcune persone correvano verso di lei, urlò che non voleva essere toccata ed era la sua unica certezza. Tempo veloce, gente che la fissava. Tempo lento dentro l’ambulanza, qualcuno le faceva domande stupide, che macchina era? Che giorno è oggi? Si stringeva il polso con la mano opposta perché quelli non capivano che non voleva essere toccata, continuava a dirlo ma la voce non usciva,
come in un incubo. Ha sbattuto la testa? Ma era seduta, proprio un momento fa, che sciocchezza! Tempo veloce, aveva un collare, sentiva un livido sul fianco, come se le avessero dato un calcio sotto
il seno e il braccio scoppiava di dolore fino al gomito, non riusciva a chiarire il concetto che non voleva essere toccata.
Luce, buio, tempo veloce, rallentato, fermo. Il tempo rimbalza come una palla quando il cervello non riesce ad accettare di aver subito un’aggressione. Poi la coscienza riprese un percorso lineare, era
mezzanotte e i secondi presero a scorrere senza ulteriori scossoni. A mezzanotte e un minuto Farfallina tornò e la sua mente in frantumi si risaldò.
Molte cose irrilevanti accaddero dopo, la frattura scomposta venne ricomposta al ritmo delle velate bestemmie e delle chiarissime minacce rivolte a un ortopedico indolente, le radiografie,
l’operazione, il dolore continuo e costante di ossa che si cercano per tornare a saldarsi in un meccanismo perfetto. Ringraziava Dio che le aveva permesso di non ricordare l’orrore dell’impatto, solo un
confortante nero denso e impenetrabile.
Una notte fece di nuovo quel sogno.
Capitava sempre più raramente dopo la morte del padre. Lo vedeva in situazioni ordinarie, famigliari, si sentiva felice di ritrovarlo ma ogni volta lui era distante e indifferente, non le parlava, dopo pochi secondi si dissolveva e la abbandonava, di nuovo, con tutte le sue domande appese.
Adesso che sei lontano, mi ami ancora?

©Ale Ortica

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