Ricattare un santo in mancanza di Nembo Kid [6] di Normanna Albertini

© ph. N.Albertini

L’INVERNO INFERNO DI PIANTE MORTE

«Allora, è stata bella la festa? Com’erano i ballerini?», chiedo a mia madre al rientro dal Centro diurno. «Ballerini? Quali ballerini? Bah! Io non ne ho mica visti…», e cambia discorso concentrandosi sull’asfalto della strada: «Guarda com’è pulito! Sembra che l’abbiano lavato. C’è la neve nei campi, ma guarda la strada: non c’è niente, neanche un po’ di neve, niente!»
Le rispondo, per l’ennesima volta, che i mezzi spazzaneve hanno viaggiato tutta la notte (così quelli spargisale), per cui la strada non può che essere lustra come una pista da ballo.
Inutile: non mi segue già più; ora sono gli alberi nei paraggi il dilemma: «Guarda come sono secchi… che pasticcio: sono tutti seccati in piedi. Dovrebbero tagliarli. Guarda quello lì, potrebbe cadere sulla strada. Non fanno più niente, la gente non fa più niente. Dimmi te se s’è mai visto un disordine così!» Provo a convincerla, di nuovo, che è inverno, la stagione in cui gli alberi perdono le foglie, e che dunque è regolare vederli spogli, ma lei, dopo aver sottolineato che anche la Pietra di Bismantova è sommersa da alberi secchi: «Già, è vero, ormai siamo a Natale, hai ragione… però, quello lì è proprio secco in piedi, e anche quelli lassù!»
Ci rinuncio: ormai siamo a Pasqua, altro che Natale, ma pazienza. Più che in inverno, per lei siamo all’inferno, un oltretomba di piante morte per chissà quale carestia, cataclisma, pestilenza, diavoleria. Pure il masso della Pietra le appare più grande, quasi minaccioso: «È una gran pietrona, quella Pietra lì…»
Non commento, mi limito ad annuire. Anche per quanto riguarda l’evento con i ballerini organizzato in struttura, abdico dall’esigere opinioni, tanto l’ha subito rimosso, come ha eliminato la visita di mio zio, suo cognato.

A casa, provo a pettinarla – mannaggia a me e a quando le ho fatto tagliare la treccia! – aggiustandole il groviglio di capelli che ha minuziosamente appiattito sul capo; le dico di non scompigliarli, che in quel modo è troppo sciatta. Lei sbuffa e brontola che la devo lasciar stare, che lei sa cosa deve fare, che sono curiosa; che devo soltanto tacere un minuto, come se non stessi già abbastanza muta.
Sono costretta a sforzi sovrumani per silenziare la maestra che è in me, quella capace dello sguardo – appunto – da maestra; capace di zittire classi di venticinque bimbetti; capace della tipica intonazione vocale da addestratore o da generale della Folgore. Capace, in una classe di adulti stranieri, di tenere testa (e sbattere fuori, con grande sgomento della bidella) due sconosciuti marcantoni albanesi che s’erano infilati in aula il giorno del test finale: «Noi facciamo test, noi vogliamo certificato per carta di soggiorno!» Invece, c’erano andati fuori, oh se c’erano andati, gesticolando e bofonchiando in albanese, mentre un loro connazionale mi diceva: «Non sai quanto ti hanno bestemmiato dietro».

E il professorino delle medie, quello tutto perfettino, magro magro – smunto come una salma – che li aveva incontrati all’uscita e che poi s’era precipitato da me, visibilmente scosso, temendo una ritorsione rivolta ai pneumatici della sua automobile?
Non sapeva, il tapino, che le maestre nulla temono; non sapeva, il codardo, che le maestre sono, loro malgrado, dotate di poteri straordinari. Vere, reali Nembo Star alle prese con la cura dei virgulti (non sempre privi di spine) delle umane foreste future.
La maestra che è in me, tuttavia, dopo tanto silenzio – forzata a una sorta di arresti domiciliari dall’accudimento della genitrice – ciclicamente erutta, anzi: esplode come il Vesuvio. Allora, mia madre mi guarda stranita, sgomenta, chiedendosi chi sia questa sessantenne snaturata, con rigido piglio mussoliniano, e in quale luogo sia finita, invece, la sua figliola sottomessa, conciliante, ben addestrata a servire fin da bambina.

Hai mai perso la pazienza tu, santo mio, fraticello che stazioni in quieto romitaggio sul mio termosifone? Con il demonio pare di sì. Pare che tu, nel corso di parecchie notti tumultuose, abbia lottato con lui, che abbiate fatto a cazzotti – in una sorta di wrestling paranormale – e che poi tu, ogni volta, sia uscito da quegli scontri ammaccato e sofferente.
Tentazioni del demonio, quaresime e penitenze, deserti da attraversare, sì, siamo quasi a Pasqua e c’è un gran silenzio in casa, santo mio. Però non è quiete, sai? È proprio assenza, vuoto.

Lo scorso anno, invece, in questo periodo si fermarono a farmi gli auguri alcuni miei ex studenti, subito seguiti da un’amica ormai cinquantenne che, essendo single, incuriosì mio padre.
Mi pare di rivederlo sorridere tra sé e sé, per poi esternare la sua solita acuta riflessione:
«Io conoscerei uno che andrebbe bene per lei…»
«Ma dai», dico io, «se le piace restare sola, perché vuoi trovarle marito?»
«Eh», fa lui, «è meglio se trova qualcuno…»
Scuoto il capo e penso che sarà colpa di qualche arteria intasata, ma lui ride e continua:
«Bisogna farli bere tutti e due e poi metterli a letto insieme e… dopo, quando si svegliano, è fatta!»
«Ma piantala!», dico io ridendo, e lui:
«Guarda che lo facevano con le galline che non volevano covare: le ubriacavano e poi le mettevano sulle uova. Quando si svegliavano, cominciavano a covare… Eh, sì, funziona…»
Caro santo, mio padre a messa ci andava tutte le domeniche, ma che il luogo del peccato fosse il letto credo non l’abbia mai creduto. Temeva le malattie, temeva l’infermità. Quelle erano il male. Sperava di poter morire lavorando, magari mentre mungeva le sue vacche nella stalla.

Il male assoluto è proprio la morte, quella che ha portato via anche lui.
Non c’è un vaccino contro la vecchiaia, né contro la morte.
Si era sempre vaccinato contro l’influenza, mio padre, ma l’ultima volta non era servito. Per settimane, mentre ci si inoltrava nell’autunno, s’intestardiva a chiedermi quando sarebbero cominciate le vaccinazioni nell’ambulatorio del suo medico. Gli dicevo di non pensarci, che poi avrei telefonato al dottore pregandolo di venire a casa, così avrebbe immunizzato anche la mamma.

Ricordo bene l’ultima volta in cui mio padre si vaccinò. Alla mattina si era alzato, aveva fatto colazione, aveva guardato fuori dalla finestra, poi mi aveva domandato una maglia pulita, una camicia e un maglione pesanti e LARGHI.
«Larghi? Perché?»
«Perché se deve farmi la puntura, tira giù meglio la roba sulla spalla, no?», disse, come se io fossi un po’ interdetta.
«Puntura? Che puntura?»
«Ah! Che puntura… il vaccino, no?»
«Ma vuoi andarci adesso?»
«Veh, quando vuoi che ci vada?»
«E ti ci porto io?»
«Ah, lascia stare… Vado a piedi…» Intanto, si infilò la giacca e fece per uscire.
Volevo fermarlo, preoccupata per la fatica che avrebbe comportato percorrere, al ritorno, il tragitto in salita.
«Non vedi che pioviggina? Almeno prendi l’ombrello!»
«Ma no, ho il berretto, e poi viene il sole!»
«Ma se poi, invece, venisse a piovere forte?»
«Eh, se piove forte, dormirò là..»
E andò a fare il vaccino.

© Normanna Albertini, 2018


In uscita a giorni Di mari e tempeste, antologia di racconti degli Sviaggiatori, Edizioni del Gattaccio, Milano 2018; collana Sdiario (a cura di Barbara Garlaschelli, Nicoletta Vallorani, Raffaele Rutigliano).
Il libro è prenotabile sul sito della casa editrice.

Copertina di Raffaele Rutigliano

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