Mostri [3] di Uduvicio Atanagi

© ph. R.Rutigliano

L’ALTRA CHIESA

L’ingresso delle chiese, il sagrato, le grosse colonne che aprono il tempio, non sono l’unica entrata, sempre che capiate di cosa parlo.
Se vi va di ascoltare, magari che ne so, anche di provare allora studiatene bene la struttura, la pianta a croce, il vortice sussurrato veloce negli occhi dalla ruota imponente del rosone così colorato da dare una vertigine di smarrimento un senso di cose che non fanno parte dei vivi, che fanno paura.
L’ingresso non serve a niente, è fatto per i turisti che ammirano i crocifissi e i dipinti, non per noi.
Bisogna invece guardare sul retro, osservarle al contrario. Percepire lo spazio che lasciano e quello che colmano nell’altro modo. È così che si entra nell’altra chiesa.
Io ci andavo in compagnia di un sacrestano, in verità era stato lui a spiegarmi come si entrava e quando si entrava. Ed è così che una notte, in una delle mie passeggiate notturne quando andavo a contemplare le stelle e il loro riflesso sulle bare nere del cimitero vicino alle mura, mi parve di vederlo sgattaiolare in un buco, proprio dietro alla cattedrale, tra i giardinetti dietro a quella volta rotonda che ai tempi, era per me la schiena della chiesa, mentre ignoravo che quella era la fronte possente. L’ingresso contrario che presto avrei anche io attraversato.
Ed eccomi seguire quella figura sfuggente, il sacrestano scheletrico col saio dove sgusciava dentro e i capelli da frate, che pareva invitarmi nel suo sparire dietro ai vicoli, allettante, eccitante in quel nascondersi che era per me un richiamo, tanto che mi trovai ad attraversare la porticina adornata di simboli strani, allegorie tutte sbagliate che mi parlavano all’altezza dello sterno giù fine dentro l’uretra.
Gli interni dell’altra chiesta funzionano in modo opposto alla falsa chiesa. La struttura va verso il basso, ci costringe a scivolare giù con un soffitto che quasi ci scherzasse addosso è tinto di giallo e ricoperto di splendenti stellette blu scuro. Dopo una lunga camminata nell’atrio inverso, inchinandomi senza pensare alle gigantesche statue, alle immense figure dipinte che raffiguravano supplizi cristiani, violenze di santi, ma in qualche modo, come per inganno dal punto di vista che mi appariva sbagliato. Per esempio il sacrificio di Isacco era visto con un’enfasi terrificante sull’agnello, sulla bestialità di Dio, la perversione ossessa del crudele Abramo con gli occhi fanatici dell’invasato, gialli, chiusi al mistero, relegati per sempre a una verminea obbedienza.
Ed ecco poi, con la testa china emergere dalla nebbia altre figure, figure che… guarda lì, il barbiere, e quello è l’impiegato di banca, il mendicante che chiede i soldi al parcheggio, e poi quel tizio che vende la cocaina vicino al supermercato, e ancora il parroco, il vescovo, quell’impresario ricchissimo che fa gli affari con la camorra, il primario e ancora il prefetto, la moglie del sindaco, il benzinaio della stradina con le case diroccate, ci sono tutti, davvero tutti, tanto da rendermi conto dell’estensione dell’altra chiesa, delle diramazioni della sua fede, di quel buco di scolo da lei creato, sotterraneo, ma pieno di uscite, di buchi dove cadere, e finalmente vedo il mio sacrestano, che mi lancia uno sguardo di seduzione e di estasi, celando e mostrando, portando la mia attenzione finalmente alla grande discesa.
Sì perché come ho spiegato, l’altra chiesa è fatta al contrario della falsa chiesa, e si va giù, si scende fino al campanile, scappando dalla luce illusoria, ricongiungendosi con le viscere della terra, le tenebre, che prima della luce governavano il mondo. Prometei, che rifiutano un accidente, scegliendo il grande e magnanimo abisso. Quando si raggiunge il grosso altare che penzola come un impiccato dal pavimentosoffitto. Ci viene dato allora un oggetto particolare, quello che chiamano l’aitso, è una specie di libro, di quelli dove sgocciolava la bava di Dio, quelli che poi hanno tradotto male, resi pazzi e vogliosi dal caldo desertico, già con la fame di possedere, di prendere e di godere.
Ed è allora che ti rendi conto di che cos’è l’altra chiesa, che ne puoi cogliere l’epifania assoluta, che la luce contraria, trafiggendoti ti mostra la traccia, l’indizio dell’altra luce.
Perché la carne si comincia a disfare e come un setaccio, tutti quanti iniziamo a cadere dentro l’oggetto, quel libro specchiante dietro al quale però non si riflettono le apparenze, si riflette dell’altro. Le palpebre sono le prime a cadere, gli occhi gli ultimi. E cominciamo così a colare, un liquido putrido e nero che si aggroviglia sotto la teca dell’aitso, un liquido vivo che abbiamo nascosto sotto a un brusio, girandoci dall’altra parte, tanto da farlo diventare invisibile al nostro sonno cosciente, quello che tutti mascherano mettendoci davanti quello che sognano di essere, che credono, che non saranno mai.
Mentre la carne si disfa si vede allora un verme, un grasso verme che si agita all’altezza del pene, e poi dentro l’utero, un parassito sudicio che cade in terra sbavante, che consuma i brandelli di sangue e di ossa che ci cadono attorno, ciocchette di capelli sudati, unghie, dentini.
Non si prova dolore, perché siamo già dall’altra parte. Resi poltiglia, messi di fronte quello che abbiamo sempre negato, allora l’altra chiesa finalmente ci giudica. Non c’è confessione o salvezza, c’è un movimento possente e meccanico, un turbinio dei pianeti, il rombare assordante del cosmo.
Giù sul fondo del mondo, gusci marci che racchiudono come ossicini di pollo la nostra anima nuda, riflessi nello splendore della carne ammalata, arriva il momento in cui scegliere in che direzione tendere, alcuni, si racconta tra i frequentatori dell’altra chiesa, si bisbiglia per i negozi tra strette di mano e occhiolini, con corpi deformi, rattrappiti giù nei cunicoli del campanile, della cupola immensa, simili a larve che tastano l’aria in preda a un terrore averbale, drizzano allora la testa, agitati, frenetici danzano sulla codina indirizzandosi verso la luce, scoprendone per la prima volta la fonte il cuore più puro che ne sprigiona il calore.

© Uduvicio Atanagi, 2018

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